Tutto ebbe inizio nell’agosto del 1867, quando l’avvocato Karl Heinrich Ulrichs pronunciò un coraggioso discorso a Monaco, durante una riunione dell’Associazione dei giuristi tedeschi: chiedeva, fra le proteste dei presenti, la revisione della legge penale per abolire la persecuzione di chi provava attrazione per persone dello stesso sesso.

La relazione di Ulrichs fu il primo coming out pubblico della storia moderna, e costò la carriera di giurista al quarantuduenne avvocato, senza peraltro riuscire a scongiurare l’imposizione del famigerato paragrafo 175 del codice penale, cioè la legge antisodomia tedesca rimasta ufficialmente in vigore dal 1871, anno di fondazione del II Reich tedesco, al 1994.

Eppure, il gesto compiuto da Ulrichs, che si dedicò dopo quel giorno alla scrittura di articoli e pamphlet, avrebbe contribuito alla ridefinizione dell’identità sessuale nell’Europa del secondo Ottocento e, nel 1897, avrebbe ispirato la nascita a Berlino del primo movimento al mondo per i diritti degli omossessuali.

Quando Ulrichs tenne il suo discorso, l’omossessualità era peraltro un concetto già dibattuto in Germania dalla medicina: negli anni cinquanta dell’Ottocento il medico berlinese Johann Ludwig Casper aveva sostenuto che alcuni «sodomiti» manifestavano un’inclinazione biologica, quindi naturale e immutabile, verso persone dello stesso sesso. Inoltre, neologismi come «uranista», coniato dallo stesso Ulrichs per indicare chi per inclinazione naturale e non per perversione era attratto da persone dello stesso sesso, e «omosessuale», vocabolo usato per la prima volta nel 1869 dallo scrittore austro-ungherese Karl Maria Kertbeny, circolavano da qualche tempo nel lessico tedesco.

Ora, grazie a un saggio che coinvolge storia, giurisprudenza, medicina e letteratura, Gay Berlin L’invenzione tedesca dell’omosessualità di Robert Beachy (traduzione di Angelo Molica Franco, Bompiani, pp. 496, euro 25,00) viene ricostruita la nascita, in Germania, di questa moderna identità di genere dagli anni di fondazione dell’impero guglielmino sino all’avvento del nazismo.

Teorie mediche di matrice progressista, da un lato, e attivisimo e pamphlet come quelli di Ulrichs e Kertbeny, dall’altro, resero possibile una vera evoluzione delle teorie sessuali, che non tardò a stimolare nella Berlino di fine secolo la nascita di una vera e propria subcultura omosessuale.

Berlino era, d’altronde, già alla fine dell’Ottocento il luogo ideale per vivere un’identità di genere che oggi definiremmo queer e per combattere a vantaggio dei diritti degli omossessuali, tanto che nel 1897 il sessuologo di origine ebraica Magnus Hirschfeld fondò nella capitale dell’impero guglielmino il «Comitato scientifico-umanitario». Al centro dell’attivismo politico e della ricerca scientifica di questa istituzione si trova la teoria del «terzo sesso», secondo cui fra i poli della «pura mascolinità» e della «pura femminilità» esisterebbero una serie di stadi sessuali intermedi, ai quali appartengono non solo gli «uranisti», ovvero i gay, ma anche le «uraniste», cioè le lesbiche.

Basata su una scala naturale, la teoria sessuale di Hirschfeld mirava a dimostrare la legittimità del Terzo sesso di Berlino, come si intitola lo studio che il medico diede alle stampe nel 1904, con l’intento di abolire la disciminazione degli omosessuali nella Germania guglielmina e, in ultima analisi, favorire l’abrogazione del paragrafo 175 della legge prussiana. L’opera scientifica e l’attivismo politico di Hirschfeld, considerato il padre fondatore del movimento di liberazione omossessuale, sono indagate in profondità da Beachy, che illumina anche aspetti inediti e scomodi dell’invenzione tedesca dell’omosessualità.

Persino per Guglielmo II, il paragrafo 175 fu fonte di scandalo, e Gay Berlin ricostruisce – fra l’altro – le ricadute dell’applicazione del paragrafo sull’entourage dell’imperatore tedesco durante una accusa di perversione e omosessualità che coinvolse alcuni dei suoi più intimi amici, fra cui il conte Eulenburg.

Il caso, dibattuto con toni aspri e satirici nei confronti della cosidetta «tavola rotonda di Liebenberg», dal nome del luogo in cui l’imperatore incontrava Eulenburg e gli altri accusati di omosessualità, ebbe il grande merito di rendere ancor più familiare il termine in Germania. La stampa gli dedicò ampio spazio, legittimando così non solo in quanto trovata linguistica, ma soprattutto come virtualità identitaria, il «terzo sesso di Berlino», che attraverso gli scandali suscitati si dimostrava ben presente nelle classi alte della società.

Se, come dimostra Beachy nel secondo capitolo del volume, fino allo scandalo di corte l’amore omoerotico era considerato una pratica in voga fra le classi sociali meno abbienti ed era assimilato alla prostituzione, dopo il caso Eulenburg si rese necessaria una riconsiderazione del concetto ufficiale di mascolinità.

Beachy, che affronta grazie alla stampa dell’epoca la questione della (ri)costruzione della mascolinità tedesca dopo lo scandalo, dimostra che in seguito al caso Eulenburg si sedimentarono paradigmi contrastanti dell’omoerotismo. Ne è testimonianza la nascita della teoria del Männerbund di Hans Blüher, dissidente «maschilista» del Comitato di Hirschfeld ed esponente di spicco della agguerrita ala di estrema destra del Movimento di liberazione omosessuale tedesco.

Mentre Blüher sul finire della prima guerra mondiale con Il ruolo dell’erotismo nella società maschile diffondeva la sua teoria dei connotati omoerotici, nazionalisti e antisemiti, Hirschfeld fondava nella neonata Repubblica di Weimar l’«Istituto per la ricerca sociale», la prima istituzione al mondo centrata sullo studio e sull’educazione progressista della sessualità etero e omosessuale. L’Istituto, nel quale ebbero luogo anche alcuni fra i primi interventi di cambio di sesso, divennne presto il fulcro attorno al quale ruotò il «terzo sesso» della Berlino di Weimar che, grazie alla maggiore libertà concessa dal nuovo assetto repubblicano della nazione, avrebbe acquisito negli anni venti sempre maggiore fama per la sua edonistca vita notturna.

Beachy ci porta con il penultimo capitolo del volume al centro della Berlino degli anni venti, visitando i bar, i cinema, i teatri e gli altri luoghi di aggragazione in cui si è espressa l’identità omossesuale della prima repubblica tedesca, svelandoci il volto di una metropoli dalla spiccata vocazione queer, molto simile a quella dei giorni nostri.

Qui, è soprattutto la letteratura a trasmettere il clima scintillante e sessualmente disinibito della capitale tedesca, che l’autore restituisce attraverso le opere, i diari e le memorie, fra gli altri, di W. H. Auden, Christopher Isherwood, Stephen Spender e Klaus Mann. Vero e proprio «Eldorado» – come si chiamava allora anche uno dei locali gay più celebri della metropoli – del turismo sessuale, Berlino divenne negli anni venti anche lo sfondo della lotta politica, ricostruita nell’ultimo capitolo di Gay Berlin, del «Comitato scientifico-umanitario» di Hirschfeld, della «Società degli Speciali» guidata da Adolf Brand e della centrista «Lega per i diritti umani».

Queste tre organizzazioni riuscirono nel 1930 a far abolire il paragrafo 175, ma la sua abrogazione non venne mai definitivamente votata dal Reichstag prima del 1933, quando lo statuto antisodomia aprì la strada alla deportazione degli omosessuali nei campi di sterminio. Nell’ultima pagina di Addio a Berlino un rassegnato Christopher Isherwood, che all’ascesa del Führer aveva abbandonato la metropoli con il fidanzato tedesco Otto, ha scritto che «Hitler è il padrone di questa città». Ciò vale a dire che l’«Eldorado» si sarebbe presto trasformato in un luogo di persecuzione.