Nell’ultima intervista rilasciata da Tim Cook al Washington Post (in Italia è stata riprodotta da Repubblica il 18 agosto), il boss della Apple si dilunga sulla necessità di un’innovazione pienamente tale da rendere la mela morsicata un brand che fa profitti vendendo prodotti e servizi di eccellenza. Insiste anche sulla necessità del segreto industriale per evitare che i concorrenti capiscono le traiettorie della ricerca e sviluppo. La parte del leone dell’intervista è la legittimazione di Apple come impresa responsabile, attenta ai diritti degli consumatori e dei lavoratori. C’è una domanda, però, sulle procedure dell’antitrust europeo per l’elusione (evasione?) fiscale di Apple, pratica che ha consentito alla società di Cupertino di dichiarare profitti molto alti. La risposta di Tim Cook è illuminante del concetto di responsabilità che anima la mela morsicata.

Le leggi violate

Una impresa, sostiene Cook, deve sempre pagare le tasse, anche se sono alte. Poi può far pressione su Washington affinché le abbassi, anche se riconosce che da tanti anni, decenni il prelievo fiscale per le imprese è così diminuito che è legittimo gridare allo scandalo. L’Unione europea, tuttavia, esagera perché sta conducendo una crociata verso imprese come Apple, che non violano leggi nazionali, bensì le aggirano perché proprio la legge lo consente. Nulla dice degli accordi che Apple, inseguita dal fisco di alcuni paesi, ha fatto per pagare una parte delle tasse evase (Italia, Germania, Francia).

La notizia che è arrivata ieri sul suo tavolo relativa la decisione dell’Unione europea di pagare 13 miliardi di tasse non pagate all’Irlanda non deve avergli reso lieta la giornata. La commissione sulla concorrenza presieduta dalla danese Margrethe Vestager si è espressa negativamente sull’accordo tra Eire e Apple, perché costituisce un trattamento di favore per la società di Cupertino, la quale non ha infatti pagato tasse per 13 miliardi di euro dal 2003 al 2014. Tim Cook non ha commentato, ma l’ufficio stampa di Apple ha subito rilasciato una dichiarazione sul fatto che la decisione della Ue mette a rischio l’occupazione dei suoi dipendenti europei. E a uno stretto giro di mail è arrivata anche la presa di posizione del premier irlandese, annunciando un ricorso e invocando la sovranità nazionale nel decidere le leggi premiali per le imprese.

Gli investimenti della Apple nel vecchio continente non sono poi così rilevanti. In un recente viaggio in Italia Tim Cook ha incontrato il premier Matteo Renzi. Incontro informale e con molte pacche sulle spalle da parte di entrambi. Ma in ballo c’era, guarda caso, un contenzioso aperto dalla agenzia italiana delle entrate con Apple. Per il fisco italiano, la società di Cupertino ha evaso tasse per 600 milioni di euro. Alla fine il patteggiamento ha portato a versare nelle casse dell’erario poco più della metà, ma Apple, in una dichiarazione congiunta con Renzi, si è impegnata a telecamere accese a investire a Napoli – più specificatamente a Bagnoli – centinaia di milioni di euro per sviluppare occupazione qualificata. Sembrava chiusa con questo scambio politico – sconto di 300 milioni di euro in cambio di occupazione – la querelle, ma poi si è appreso che l’impegno di Apple si sarebbe limitato alla formazione di un numero di disoccupati intellettuali, al termine della quale si dovevano appellare agli spiriti animali del mercato per trovare un lavoro.

L’affannosa tigre celtica

In anni recenti, lo stesso problema la Apple lo ha avuto in Francia. Anche oltralpe, infatti, Tim Cook è indicato come un imprenditore che le tasse le elude con non chalance (le cifre addebitate a Apple sono sempre nell’ordine delle centinaia di milioni di euro). Quel che colpisce della decisione della commissione europea è però l’ammontare dei mancati versamenti al fisco irlandese. 13 miliardi di euro risolverebbero non pochi problemi a Dublino. Disoccupazione in crescita, caduta del prodotto interno lordo e molte imprese statunitensi e tedesche sempre meno propense a rimanere nelle terre della «tigre celtica», così chiamata perché i tassi di crescita negli anni Novanta del Novecento erano eguali a quelli dei paesi emergenti in Asia. Per tutti gli anni Ottanta, Dublino ha infatti definito delle aree speciali e facilitazione per le imprese straniere che investivano in Irlanda. Così Microsoft, Amazon, Google, Apple hanno aperto le loro succursali grazie proprio a questi incentivi. Questo ha garantito per quasi un decennio una crescita a due cifre. Ma quando la crisi ha cominciato a mordere il freno, la tigre celtica ha cominciato a mostrare il fiato corto. Una dopo l’altra tutte le imprese hanno detto, senza mezzi termini, che se Dublino non definiva regole a esse più favorevoli di quelle già vantaggiose avrebbero chiuso gli stabilimenti e scelto un paese a loro più favorevole. Da qui la politica di facilitazioni fiscali e di accordi su aliquote fiscali tendenti sempre al ribasso. Il rischio di un esodo di gran parte delle imprese high-tech (oltre Apple, ci sono Google, Amazon, Cisco) ha così terrorizzato l’establishment politico irlandese che ha assunto il ruolo di difensore di ufficio dell’operato delle multinazionali. Quello con Apple è stato un accordo perfetto dal punto di vista fiscale.

In Irlanda operano due società Apple: la Apple Sales International e Apple Operations Europe. Tutte le entrate finivano nelle casse di una delle due società. Per la commissione europea, però, le due società «non esistevano che sulla carta e non avrebbero potuto generare tali profitti». Inoltre nelle loro casse finivano tutte le entrate delle vendite europee. In base alle aliquote fiscali ridotte al minimo e al fatto che ogni anno le due società dovevano versare alla casa madre 2 miliardi di euro come pagamento delle royalties sulla proprietà intellettuale e per lo sviluppo del software che adattava quello prodotto negli Stati Uniti agli standard europei, alla fine di ogni anno fiscale le entrate alle due società irlandesi ammontavano a poche decine di milioni di euro. Da qui la decisione della commissione europea di imporre all’Irlanda il recupero delle tasse non pagate.

La reggente della commissione europea sa che è una decisione che acuisce la tensione tra Gli Stati Uniti e il vecchio continente, manifestata con la pubblicazione di un «quaderno bianco» da parte del Congresso sulla «persecuzione delle imprese americane da parte dell’Europa». Per molti esponenti politici – tanto repubblicani che democratici – l’Unione europea è ritenuta ostaggio di pregiudizi antiamericani. In tale contesto, le difficoltà del negoziato sul Ttip – è dell’altro giorno la dichiarazione del ministro dell’economia tedesco Sigmar Gabriel sulla morte del trattato – sono da ascrivere a questo «antiamericanismo» europeo.

I burattini della Ue

Margrethe Vestager ha subito precisato che l’Unione europea non ha multato la Apple, ma solo chiesto all’Irlanda di far pagare le tasse, cioè risorse monetarie che gli spettano di diritto. E che la decisione di ieri non ha nulla a che vedere con i provvedimenti contro Google degli anni passati, quando la società di Mountain View è stata multata per posizione dominante sul mercato e per aver imposto ai suoi clienti e utenti di usare applicazioni e software che avrebbero portato vantaggi a a Google, penalizzando i concorrenti. Ma quella delle agevolazioni fiscali e dell’evasione delle tasse da parte delle multinazionali sono temi scottanti. Da oltre quindici anni, associazioni dei diritti civili, movimenti sociali hanno chiesto ai rispettivi governi nazionali di intervenire, ma poco è stato fatto. Gi unici che si sono mossi con rigore sono stati proprio quei tecnoburocrati liberisti dell’Unione europea indicati dal montante populismo e da una parte rilevante della sinistra continentale come burattini nelle mani della grande finanza.