Completato lo scorso maggio a trent’anni dall’inizio dei lavori, dopo una lunghissima interruzione, il Grande cretto di Alberto Burri è forse l’opera d’arte ambientale più prepotentemente emotiva mai realizzata. Chi ha percorso le larghe spaccature della colata di cemento che si estende per oltre ottantamila metri quadrati dove un tempo si trovava la cittadina trapanese di Gibellina, rasa al suolo nel 1968 dal terremoto, conosce bene la potenza evocativa di questa memoria pietrificata che biancica sotto il sole del Belice. L’ispirazione per la serie pittorica dei Cretti, che Burri realizza a partire dagli anni settanta stendendo un impiastro di caolino, zinco e colle viniliche, e facendolo seccare fino al formarsi di crepe e spaccature irregolari, proviene da un luogo molto lontano dai paesaggi della Sicilia e dell’Umbria, dove l’artista era nato nel 1915, esattamente cent’anni fa.
A partire dal 1963, e fino al ’91, infatti, Burri e la moglie trascorrono parte dell’anno nella loro casa-studio di Los Angeles. È visitando il paesaggio aridamente lunare della vicina Death Valley, immortalata proprio nel ’70 da Michelangelo Antonioni in Zabriskie Point, che l’artista inizia a concepire l’idea di riprodurre pittoricamente le spaccature del terreno, fino a trasporre letteralmente la topografia naturalmente crettosa del deserto americano, sull’umiliata valle siciliana, come una sindone o un sigillo inamovibile.
Alberto Burri The Trauma of Painting, la grande retrospettiva curata da Emily Braun al Guggenheim Museum di New York, dimostra che gli Stati Uniti non sono stati centrali solo per la valorizzazione critica dell’opera dell’artista italiano, ma anche per lo sviluppo della sua pittura, avviata come passatempo durante la Seconda guerra mondiale, quando Burri era internato in un campo di prigionia del Texas. A sigillare questo legame, la mostra (visitabile fino 6 gennaio prossimo) si conclude proprio con il Grande Cretto, idealmente trasportato nel museo tramite un video di Petra Noordkamp.
L’architettura di Frank Lloyd Wright, con la sua ascendente rampa a spirale, sembra suggerire anche nel caso di Burri un percorso linearmente progressivo di ricerca artistica. In realtà, le opera composte contemporaneamente a partire dal 1949 fino alla metà degli anni cinquanta, corrispondenti alle serie dei Catrami, dei Gobbi, delle Muffe e dei Bianchi, già contengono potenzialmente l’intero vocabolario e la sintassi di tutta l’opera dell’artista, scomparso nel ’95.
Secondo una rigida consuetudine che enfatizza il suo rifiuto di ogni componente figurativa, Burri intitola le proprie opere secondo i materiali, i colori e le procedure impiegate. Per questo, la tela del 1952 intitolata Lo strappo, appare come una metaforica quanto significativa lacerazione di questa pratica. Realizzata a soli tre anni dai primissimi esperimenti con le superfici catramose che ritorneranno amplificate e ingigantite nella monotona serie dei Celletex degli anni ottanta, l’opera presenta la prima delle famose cuciture chirurgiche di Burri, insieme all’uso di tessuti grezzi, fioriture di polvere di pomice, e un’austera tavolozza che combina bianco, nero e rosso, i tre colori su cui si concentra l’artista, salvo saltuarie esplosioni dell’oro.
È a partire dagli anni cinquanta, in particolare grazie ai contributi di James Johnson Sweeney, all’epoca direttore del Guggenheim, che l’opera di Burri comincia a venire interpretata come metafora riparativa della ferite – fisiche e psicologiche – causate dal trauma della guerra. Nonostante le resistenze dell’artista alle evocazioni del trauma riproposte nel titolo scelto dalla curatrice, che nel documentatissimo catalogo propone anche un discutibile parallelo tra l’interesse di Burri per i materiali di scarto e l’estetica del cinema neorealista, l’interpretazione privilegiata dalla mostra sembra confermare una lettura dell’artista ormai ossificata. Già in opere come Grande bianco (’52), dove la tela di juta cicatrizza combinandosi con stracci chiazzati di colore che hanno la stessa trasognata leggerezza di certe marine di De Pisis, e soprattutto nella serie dei Sacchi, appare evidente che le cuciture di Burri non hanno tanto la funzione di impedire la suppurazione del trauma, quanto quella di ottenere un inedito realismo puramente materiale. Un’opera come Grande sacco BS (’56), ad esempio, mostra la complessità e l’eleganza del suo processo compositivo, che baroccheggia con tessiture, spessori e cromie differenti, creando, tramite la lievità di cuciture meccaniche e la violenza di punti inferti a mano, una cosmogonia tanto visiva quanto tattile.
Visitando la mostra, lo spettatore che porta in sé la piatta memoria fotografica dei sacchi violentati da Burri, fa esperienza di quella che il poeta Emilio Villa ha definito la grande invenzione dell’artista: l’opacità ardita delle sue opere, che suggerisce una percezione aptica della pittura. Le tele di Burri non evocano soltanto il corpo umano nelle sue ulcerazioni, concrezioni patologiche e cavernosità sessuali, ma chiamano in causa lo spettatore nella complessità delle sue capacità percettive.
Nel percorso che conduce ai Sacchi, l’opera di Burri ridefinisce concettualmente il gesto femminile della cucitura combinandolo con una composizione dello spazio pittorico che, pur rompendo con il passato della tradizione, lo evoca tramite campiture di colore in grado di spettralizzare la geometria simmetrica degli affreschi di Piero della Francesca e il selvaggio cromatismo dei maestri umbri. Con la serie delle Combustioni e dei Legni, realizzati tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio del decennio successivo, Burri sembra attraversare una fase di irrigidimento espressivo, cominciando a sperimentare con una gestualità più aggressiva, esercitata su un materiale resistente come il legno, cauterizzato attraverso l’uso della fiamma ossidrica.
Dopo aver esercitato un sicuro influsso sulla poetica iniziale di artisti quali Rauschenberg e Twombly, di stanza a Roma negli anni cinquanta, opere come Legno nero e rosso (’60) sembrano invece anticipare certi risultati del Minimalismo americano e dell’Arte povera che avrebbero dominato la scena artistica nei decenni successivi. Si tratta, anche in questo caso, di un minimalismo materico, che nella serie dei Ferri si esplicita nelle saldature di fogli di metallo, lavorati con la fiamma ossidrica per castrarne la qualità riflessiva. La componente femminile degli esordi, spesso evocata anche dall’uso di lacerti di indumenti e biancheria (si pensi allo straordinario Grande bianco del ’56) lascia il posto a una inflessibile gestualità maschile: all’ago si sostituisce la saldatrice. Le opere di questo periodo sono minacciose e potenzialmente pericolose, per via delle slabbrature che espongono gli angoli vivi dei fogli di metallo. Nella carriera di Burri, si apre una fase riflessiva: chiuso in una fucina simile a quella del Vulcano di Vélazquez, ritrova la leggerezza di un maldestro soffiatore di vetro nella serie delle Combustioni plastiche che lo occupa dal 1957 agli anni settanta.
Sebbene l’artista abbia sempre insistito sulla sua completa capacità di controllare la materia, l’uso del fuoco aggiunge una componente aleatoria al suo processo compositivo, perché la bruciatura agisce sulla materia secondo principi fisici mai esattamente controllabili. Le Grandi plastiche degli anni sessanta rappresentano forse il risultato più rigoroso della pittura senza pittura di Burri. Realizzate con vari strati di plastica trasparente montati su cornici di metallo di grandi dimensioni e successivamente oltraggiati con la fiamma ossidrica, queste opere non solo radicalizzano l’importanza del gesto, non più supportato dalle protesi di pennello e pittura, ma annullano anche l’idea di fondo, così primaria nelle opere precedenti. Burri, infatti, espone le Grandi plastiche al centro dello spazio, liberando il potenziale scultoreo dell’opera. Se questi lavori vescicolari sembrano una messa in scena del dramma epitelico intrinseco a ciò che il grande psicoanalista francese Didier Anzieu ha chiamato l’io-pelle, riferendosi al nucleo protettivo del soggetto, allo stesso tempo si configurano come una prima presa di contatto con la realtà del miracolo economico e la sua plastificazione del consumo e dell’esperienza.
Per la prima volta nell’opera di Burri, lavori successivi come Rosso plastica e Nero plastica, inglobano l’esterno. Con la loro sensuale lucidità, infatti, riflettono e drammatizzano la luce, producendo effetti che richiamano le sculture plasmate dalle violente ditate di Lucio Fontana. Le oltre cento opere esposte in Alberto Burri: The Trauma of Painting testimoniano insomma il coerente tentativo di controllare una materia devastata e devastabile. Ciò che ancora colpisce, persino nella profonda durezza del Grande cretto di Gibellina, è tuttavia la possibilità di percepire, nell’irruenza della materia, il delicato rispetto del gesto di Burri.