Arrivati a un terzo di Io sono Burroughs (Il Saggiatore, pp. 812, euro 40,00, ottima traduzione di Fabio Pedone), massiccia e definitiva biografia del leggendario autore del Pasto nudo scritta dall’inglese Barry Miles, è quasi inevitabile chiedersi se sia davvero necessario, per restituire la dimensione in cui è vissuto William Seward Burroughs II, descrivere minuziosamente l’arredamento delle infinite camere d’albergo in cui lo scrittore ha abitato in giro per il mondo e dei bar in cui spendeva buona parte del suo tempo, o soffermarsi sui ciascuno dei molti ragazzi spesso giovanissimi con cui aveva intrecciato relazioni da Città del Messico a Londra, da Tangeri a Parigi. La risposta è positiva. Quella cura quasi maniacale per il dettaglio non è vezzosa né ridondante. Risponde a una strategia narrativa lucida. Ha la sua ragion d’essere.

Barry Miles, che oggi ha 73 anni, è stato un comprimario eccellente sulla scena della Swinging London anni sessanta, nella quale incarnava l’ala più politicamente impegnata. Amico di Paul McCartney, di cui avrebbe scritto decenni più tardi la biografia ufficiale, e di Ginsberg, con il quale ha per un po’ convissuto nella campagna vicino New York, ha firmato molte biografie e saggi sul rock classico. Da alcuni decenni, però, si è concentrato nel riscrivere la storia della controcultura nella seconda metà del secolo scorso, sottraendosi sempre alla tentazione di scivolare nella ripetizione di quanto già noto o di cedere all’aura leggendaria. Vuole invece restituire la realtà quotidiana di quelle esperienze esistenziali e artistiche: i luoghi, le abitudini, persino gli odori e i sapori. Ha dedicato saggi e biografie a Kerouac e Bukowsky, agli hippies, alla scena incandescente degli anni settanta, al Beat Hotel, l’alberghetto di Parigi dove hanno vissuto dal 1957 al 1963 Burroughs, Ginsberg, Gregory Corso e Peter Orlowsky. Con London Calling, tradotto da non molto anche in italiano, ha ricostruito l’intera vicenda della cultura underground londinese dal dopoguerra al Punk, glissando sull’ovvio versante musicale per concentrarsi sulle manifestazioni letterarie, artistiche e sociali.

Nella monumentale biografia di Burroughs, Miles applica alla Beat Generation la stessa operazione di affrancamento dalla leggenda e dal luogo comune. Mette da parte l’oleografia del gruppo compatto e omogeneo per far emergere le differenze sul piano artistico come su quello umano. Indica le tensioni, i rancori e le antipatie intrecciate con le amicizie, la collaborazione e gli amori omosessuali. Sottolinea la distanza che, a partire da una comune inquietudine, corre tra le diverse ricerche individuali dei beat. Burroughs appare il meno americano del gruppo, all’opposto dell’americanissimo Kerouac. Si rivela tanto gelido e sperimentale quanto ribollente era Corso, ma anche scevro dalle pulsioni pre-hippie che animavano Ginsberg.

Il lavoro meticoloso di Miles porta in piena luce la collocazione di Burroughs nel solco dell’avanguardia europea. Fornito, unico tra i beat, di una solida formazione classica acquisita a Harvard, considerava suoi maestri Beckett e Céline, e tra le sue frequentazioni erano assidui pittori come Francis Bacon e Brion Gysin o scrittori sperimentali come Paul e Jane Bowles. Se la caotica stesura del Pasto nudo e il suo assemblaggio quasi casuale rispondono in parte all’estetica beat dell’improvvisazione, le opere seguenti, almeno fino alla grande trilogia finale della Notte rossa scritta negli anni ottnta, guardano invece consapevolmente alle avanguardie della prima metà del secolo. Il metodo del cut-up scoperto casualmente da Gysin e messo a punto dai due amici in lunghe e intense sedute letterarie, consistente nel ritagliare e combinare frasi o citazioni diverse, riprende consapevolmente le sperimentazioni dadaiste di Tristan Tzara e i lavori di Eliot.

Nella parabola della controcultura, l’apogeo degli anni sessanta è in realtà il momento in cui Burroughs si trovò meno a proprio agio. Non ne apprezzava né il versante scintillante approdato al jet set né quello allucinogeno e pacifista: l’incontro con il profeta lisergico Timothy Leary si rivelò una reciproca e cocente delusione. La sua era una ribellione anche politica, ma sempre individuale e individualista, basata sui comportamenti e sulle scelte artistiche, fatti di gesti e sovvertimenti linguistici. Più di chiunque altro è stato il fondatore e il nume tutelare della cultura alternativa degli anni settanta e ottanta, di una estetica punk che va molto oltre i confini del rock’n’roll e di un post-modernismo declinato nella sua versione più densa. Il debito nei suoi confronti era universalmente riconoscuto. Nell’appartamento sulla Bowery in cui si era rinchiuso dopo essere tornato a New York nel 1974, «il Bunker», tutta la scena alternativa della cultura newyorchese dell’epoca si recava puntualmente a omaggiarlo.

Miles conosce la differenza tra biografia e critica. Non pretende di interpretare i testi del suo oggetto di studio, però offre elementi inestimabili per chi intendesse farlo. Indaga e scandaglia i metodi di lavoro dello scrittore. Rintraccia uno per uno, nella miriade di figure che affollano il suo libro, i modelli destinati a riapparire, a volte dopo decenni, nei romanzi di Burroughs. Cerca il nesso, mai tanto intimo come in questo caso, tra la vita e l’opera di uno scrittore arrivato alla letteratura tardi, quando a metà degli anni cinquanta era già sui quarant’anni, e nella cui biografia l’intreccio tra esperienze reali e creazione è quasi indistinguibile.
Su Bill Burroughs erano già state pubblicate biografie e monografie di ottimo livello, a partire dal classico Fuorilegge della letteratura, di Ted Morgan. Si trattava dunque di scavare più a fondo di quanto non fosse già stato fatto, alla ricerca del nucleo centrale di genialità, inquietudine, perversione e dolore che animava Burroughs tanto nei suoi vagabondaggi come di fronte alla macchina da scrivere. Quel nucleo che lui stesso identificava nel corpo-a-corpo durato la vita intera con quello che Brion Gysin, suo gemello artistico, aveva indicato nel corso di uno dei loro frequenti esperimenti di magia come «lo Spirito del Male».

Era stato lo Spirito del Male a guidare la pallottola con cui Burroughs aveva ucciso nel 1951 la moglie Joan Vollmer a Città del Messico, e prima ancora a suggerire ai coniugi, lui tossico di oppiacei, lei di benzedrina, la folle idea di giocare a Guglielmo Tell di fronte a un gruppo di amici ubriachi: pur essendo un ottimo tiratore, Burroughs mancò il bicchiere e uccise la donna. Ma il demone, che in alcune occasioni lo scrittore identificava sia con l’America che con la famiglia e la classe sociale di provenienza, esercitava il suo nefasto influsso da sempre: nell’infanzia dorata di un pargolo viziato della upper class, educato nelle scuole migliori e mantenuto dalla famiglia sino ai cinquant’anni, nell’adolescenza segnata da un’omosessualità vissuta allora con vergogna, nell’eterna dipendenza dagli oppiacei. Forse anche nella scelta di abbandonare e dimenticare per vent’anni il figlio Billy jr., ucciso a trentasei anni dall’alcool e dall’eroina dopo aver scritto che il padre gli aveva avvelenato la vita.

Burroughs ha combattuto lo Spirto del Male errando da una camera d’albergo all’altra, con ogni tipo di droga, a letto con decine di ragazzini, adddentrandosi da solo nella foresta amazzonica alla ricerca dello Yage molto prima che gli allucinogeni diventassero di moda, con la magia, con l’adesione a Scientology, con la letteratura. La biografia di Miles è il romanzo di questo scontro. Non è facile provare simpatia per l’uomo disperato che ne è protagonista, con il suo egoismo, il suo narcisismo, la freddezza che a volte sconfina nell’aridità. Però è anche impossibile non riconoscere che la sua figura giganteggia come vero tramite fra le avanguardie artistiche della prima e della seconda metà del Novecento. Da Ballard ai cyberpunk, da Thomas Pynchon a David Foster Wallace, da Lou Reed a Patti Smith, da Nicolas Roeg a David Cronenberg quasi tutto ciò che di importante si è mosso alla fine del Novecento gli deve moltissimo