La cecità è una condizione di fiducia forzata. Non c’è nessuna virtù ma solo necessità, nell’esporsi inerme allo sguardo e all’agire degli altri: nell’offrirsi, nel consegnarsi seppur mantenendo vigili i sensi residuali. Per quanto possa sembrare paradossale, per un cieco la fiducia è una faccenda di sopravvivenza, laddove normalmente avviene il contrario. Sigillandosi in difesa, arroccandosi nella più statistica delle strategie di conservazione, chi non vede morirebbe di inedia. Soprattutto se è costretto a guadagnarsi la vita. È quello che succede al protagonista di Sada, l’intenso film documentario del regista e fotografo palestinese Akram Safadi, appena presentato a Torino in anteprima europea. Ramzi è un uomo senza età: potrebbe avere ventincinque anni o cinquanta. È nato con una malformazione agli occhi che lo rende cieco del tutto, e con quegli occhi a fessura lo spettatore dovrà fare i conti per tutti i 93 minuti che dura la storia. Si aggira vendendo caffè amaro (Sada, il nome in arabo palestinese) per una Ramallah che prende fiato dopo uno degli ennesimi attacchi arrivati sui cieli di Gaza: è una città che esce dal carapace timidamente, che tira fuori la testa e stende per la strada una normalità fatta di di clacson e di gente che cammina, di negozi aperti, imbottigliamenti e bambini contro le ringhiere. In mezzo a tutto questo cammina Ramzi, claudicante per una ferita alla gamba che risale ai tempi in cui stava a Gaza. Se ne va in giro come uno Charlot gambizzato, offrendo caffè con un urlo che non ha niente di umano, versandolo in un bicchiere di plastica e sollevando la mano, aspettando fiducioso di sentire la consistenza metallica di una moneta. Essere costretti alla fiducia in un contesto in cui è la diffidenza – quando non la sfiducia – a farla da padrone nelle varianti della paura e dello sconforto. Sta in questo la grandezza dell’approccio di Safadi. La fiducia come un liquido di contrasto: non tanto per vedere il corpo martoriato che lo circonda ma per studiare come funziona in quanto dispositivo in sé, come generatore di movimento, di vita, di vita nonostante. C’è una scena nel film in cui Ramzi, inconsapevole, cammina con i suoi thermos in mano fendendo in direzione contraria una manifestazione di donne. Le donne lo vedono avanzare e si aprono in due ali per farlo passare. Un cieco come una cerniera che apre in due una contestazione. È tutto qui il metodo, e in fondo anche la storia, di Akram Safadi. Nato nel 1962 a Gerusalemme Est, laureato in sociologia all’università di Bir Zeit, nei territori occupati palestinesi, inzia a lavorare come fotografo all’inizio degli anni Ottanta. Allo scoppio della Prima Intifada, nel 1987, è lì a documentare con la macchina la violenza degli scontri. Le sue foto faranno il giro del mondo. E però dopo aver fotografato un ragazzo di 16 anni ucciso da una pallottola in testa Safadi decide che quella foto sarà l’ultima. Capisce che con quegli scatti non fa altro che alimentare dall’interno ad alimentare un’immagine calcificata: «anche loro hanno contribuito a proporci sempre e solo come vittime». Da qui nascerà nel 2000 il documentario Song on a narrow path, una produzione Italia/Belgio/Francia (Stefilm, Versus, Dora Productions) vincitore del Prix Doc Esmaelia al Festival del Cairo e trasmesso nei canali televisivisi di Medio Oriente, Francia, Germania, Belgio e Italia. Perché, si chiedeva allora Safadi, dobbiamo rispondere all’aspettativa di chi ci ha infilato dentro un’immagine come si infila un uomo dentro una bara?
Fin da allora la direzione di Safadi era quella di Ramzi: deludere l’aspettativa, andare in direzione contraria, contestare il senso di marcia della contestazione. In quest’uomo che cammina per le strade di Ramallah gridando «Caffè», che si mette il vestito buono per partecipare a un provino radiofonico (a Gaza conduceva una trasmissione dedicata alla disabilità, il cui archivio è andato distrutto in un bombardamento), che cerca di capire come far tornare a Gaza per le vacanze il fratellino ipovedente che studia in collegio, c’è qualcosa di ottuso e struggente. Così come c’è qualcosa di struggente nelle fotografie dei quattro figli che Ramzi conserva nel telefonino e che mostra alla telecamere da Safadi: l’unico, insieme, agli spettatori che le può vedere. Stanno a Gaza con la madre, la più piccola non l’ha mai visto, gli altri sperano che succeda, e se solo fosse più facile così sarebbe: «Immagina quando un bambino ti chiede: portaci da te e tu non puoi. Non perché non vuoi ma perché questa è la politica dello Stato di Israele». Gaza è lontana, e così Ramzi li ospita dentro il telefono, che tiene sempre in mano. Lì vivono le loro immagini: «Forse ti chiedi perché mi sia fatto mandare queste fotografie che tanto non vedrò mai – commenta Ramzi. Però almeno, anche se non è la stessa cosa, con queste foto nel mio telefono, è come se fossero con me. È come se mi accompagnassero ovunque vada». È struggente, ma non c’è nulla di pietistico. Safadi, che vive tra Ramallah e l’Italia, è troppo intelligente, e la sua terra è troppo violentata, per proporre la logica ricattatoria del pietismo. Ramzi e suo fratello Ahmad sono quel liquido di contrasto – non certo rassicurante a vedersi – che innerva la Palestina. Le telefonate ansiogene alla Croce Rossa che deve dare ad Ahmad il permesso di passare non invitano lo spettatore ad accomodarsi nella soffice poltrona del paternalismo commosso.
Sada è un film che Akram Safadi si è autoprodotto insieme a Diego Volpi, della piccola casa di produzione torinese Fotogramma 25. E in questo sta anche una forma di libertà coatta: a deludere le aspettative, a rovesciare lo stereotipo vittimario (senza negarne la sostanza drammatica) si finisce per restare soli. Soli come Ramzi e suo fratello Ahmad, esperti involontari di fiducia in una geografia divisa da un muro, devastata dalle esplosioni, segnata dal rancore, tenuta in piedi dalla contrapposizione. È qui, per queste strade, che Safadi gira anche un omaggio al cinema e al documentario in particolare: cos’è il documentario, sembra dirci questo film, se non una forma di fiducia obbligata, se non un andare in direzione contraria, aprire la realtà come una cerniera, camminare impacciati confidando nello sguardo altrui, aprire la macchina aspettando fiduciosi di sentire non la consistenza metallica di una moneta ma quella imprendibile della realtà. C’è un passaggio, di grande forza emotiva e insieme di grande ironia, in cui il regista insegna a Ahmed a usare la macchina da presa. Il fratello di Ramzi vede poco, ma qualcosa vede. «Riesci a vedere la fiamma?», gli chiede Safadi dentro l’inquadratura malferma di Ahmed. «C’è un fuoco qui – aggiunge –, ho acceso un fuoco». Ahmed ci prova, sforza lo sguardo debilitato, e ci riesce. E anche noi guardiamo un regista sorridere, in mezzo alla Palestina, che cerca di farsi vedere da un bambino agitando un accendino e chiedendo di vedere un fuoco.