Avevamo frainteso. Il premier turco Yildirim ci indica la “retta” via: in Siria Ankara non sta facendo la guerra ai kurdi. «Una spudorata menzogna – ha detto ieri il primo ministro dopo aver sfogliato la stampa straniera – Il compito dei militari è difendere la frontiera. Continueremo fin quando avremo cacciato Daesh dalla regione».

Eppure a rileggere le dichiarazioni dei giorni scorsi era sembrato proprio che nel calderone del terrorismo Yildirim avesse ripetutamente messo anche i kurdi delle Ypg. Lo stesso aveva fatto il suo ministro della Difesa Isik («Non permetteremo che le Ypg sostituiscano Daesh») e il presidente Erdogan.

L’operazione «zona cuscinetto» è stata ampiamente spiegata in passato e di nuovo nelle ultime ore: impedire che Rojava unisca il cantone ovest di Afrin a quello centrale di Kobane e quello est di Jazire. Lo ricordano i colpi di artiglieria che ieri centrato per il secondo giorno di fila il villaggio di Amarna, tra Jarabulus (ora sotto il controllo dell’Esercito Libero Siriano al soldo di Ankara) e Manbij (in mano alle Ypg). Conferme giungono dalle forze armate turche: l’artiglieria serve perché i kurdi non si stanno ritirando dalla riva ovest dell’Eufrate.

La Turchia sta infiammando l’area: dopo aver mandato all’aria il processo di pace con il Pkk, ora invade la Siria facendosi scudo con l’Isis. Il grido di battaglia è ripulire il confine da elementi pericolosi per la sicurezza turca, come se le Ypg avessero mai sparato un solo colpo contro la frontiera.

In casa gli effetti della scellerata politica dell’instabilità sono esplosi in tutta la loro gravità: attentati di matrice islamista; una brutale campagna contro il Bakur (Kurdistan turco) che ha affossato il tentativo kurdo di usare l’ingresso in parlamento per un’integrazione reale; la ripresa della lotta armata del Pkk che nel 2013 spontaneamente abbandonò le armi a favore della soluzione pacifica.

La strategia della «guerra permanente» (o, nelle parole di Yildirim, della guerra totale) è ben rappresentata dal camion bomba che ieri ha sventrato una caserma della polizia a Cizre, città del sud est kurdo massacrata da mesi di coprifuoco e abusi dell’esercito. Undici poliziotti uccisi e 78 feriti, di cui tre civili. Il camion è saltato in aria all’alba, guidato da un kamikaze.

Il Pkk ha rivendicato l’azione, reazione – dice il comunicato – al «prolungato isolamento» in cui è costretto il leader Ocalan e «la mancanza di notizie» sul suo stato di salute. Da oltre un anno né avvocati né sostenitori sono autorizzati a fargli visita.

In Siria, intanto, si continua a combattere. In attesa dell’annunciata tregua su Aleppo, ieri Erdogan ha discusso al telefono con l’amico ritrovato, il presidente russo Putin, delle modalità per velocizzare l’arrivo degli aiuti ad Aleppo e della situazione siriana. Che con l’invasione turca entra in una nuova fase che non infastidisce più Mosca dopo il repentino cambio di opinione di Ankara sul futuro prossimo di Assad.

Ma è a Damasco che ieri il governo ha segnato un punto a proprio favore: è cominciata l’evacuazione dei miliziani di opposizione e dei loro familiari dal distretto di Daraya, 7 km dal centro della capitale. Considerato il luogo simbolo delle proteste anti-Assad di 5 anni fa, è stato roccaforte dei “ribelli” dal 2012. Prima di 3mila membri dell’Esercito Libero Siriano, poi del gruppo islamista Ajnad al-Sham e della Brigata Martiri dell’Islam, entrambi parte della federazione Jaysh al Fatah, guidata di Jabhat Fatah al-Sham, l’ex al-Nusra.

Dopo l’accordo con il governo, ieri gli autobus hanno iniziato ad evacuare Daraya, tra la disperazione dei residenti. Usciranno 700 miliziani e le loro famiglie, 4mila civili degli 8mila rimasti (erano 170mila prima della guerra).

I “ribelli”, a cui non è stato imposto l’abbandono delle armi personali, saranno portati a Idlib, città sotto il controllo dell’ex al-Nusra. I familiari saranno condotti a Hrajela, a Ghouta Est: da lì, fa sapere il governo, potranno decidere dove andare.

Così Daraya torna in mano al governo, dopo anni di assedio interno e esterno che ha affamato la popolazione, sopravvissuta mangiando erba e gatti: dal 2012 è entrato un solo convoglio umanitario. I primi camion di aiuti arrivano in queste ore, ma chi resta non nasconde il timore di rappresaglie da parte di Damasco e del trasferimento forzato dei residenti, per lo più sunniti.

Il governo promette il ritorno degli sfollati e una campagna di ricostruzione ma l’Onu, da parte sua, preferisce precisare di non avere avuto alcun ruolo nell’accordo, che segna una delle peggiori sconfitte per il fronte di opposizione.