Inizia oggi a Roma (ore 18, Roma Scout Center, Largo dello Scoutismo, 1 – tra Tiburtina e Piazza Bologna) il V incontro di solidarietà alla rivoluzione bolivariana del Venezuela. Tre giorni di riflessione e confronto organizzati da Caracas Chiama, una rete di organizzazioni, movimenti, associazioni e soggettività della sinistra d’alternativa che guarda alle esperienze più avanzate del continente latinoamericano come stimolo al disegno di un orizzonte condiviso.

Intellettuali, politici, diplomatici, ospiti internazionali, centri sociali e movimenti animeranno due momenti centrali – oggi e domani – e quattro tavoli tematici: Conquiste e sfide del socialismo bolivariano; Libertà di genere e libertà dal capitalismo; Per un nuovo internazionalismo; Potere popolare versus democrazia liberale. Domenica alle 10, le conclusioni dei tavoli tematici, il dibattito, la “dichiarazione di Roma” e la scelta della città sede del VI incontro di solidarietà, che in questa occasione ha avuto come principale organizzatore il collettivo Militant.

L’imperialismo avanza – dice la locandina di convocazione – e cerca nel Latinoamerica un laboratorio per nuove tecniche di sopraffazione: guerra economica, golpe suave, corruzione, accaparramento dei beni di prima necessità risultano persino più efficaci degli attacchi diretti e degli interventi militari. Il Venezuela, però, resiste, con la solidarietà di chi ancora vede nella rivoluzione bolivariana un’alternativa concreta al neoliberismo globale.
Sono trascorsi quasi 18 anni da quel 6 dicembre del 1988, quando Hugo Chavez venne eletto presidente del Venezuela con il 56,2% dei voti. Una sorpresa per l’establishment abituato a un’asfittica e rituale alternanza tra centro-destra e centro-sinistra e a forti livelli di disaffezione elettorale.

Irruppe allora sulla scena un’alleanza inedita, un nuovo blocco sociale, variegato e composito, che aveva catalizzato la protesta contro la corruzione, i tagli alla spesa sociale e la svendita del paese, ma conteneva in nuce anche una nuova proposta: basata su una nuova indipendenza e sul riscatto sociale degli esclusi.

Proprio gli esclusi, infatti (quella “plebe” composta dai poverissimi delle periferie, dagli indigeni, dagli afrodiscendenti, dalle donne, dai marginali) costituiranno l’ossatura del “proceso bolivariano”: uniti agli operai, agli studenti, ai militari progressisti e a quelle fasce di piccola borghesia impoverita dalle politiche economiche modello Fmi.
La discussione per l’Assemblea costituente, che porterà alla nuova Carta magna, rimette in moto il paese. Un impegno – quello per una nuova costituzione – ribadito da Chavez al momento di assumere l’incarico, il 2 febbraio del 1999: “Giuro davanti al mio popolo e a questa moribonda costituzione che promuoverò le trasformazioni democratiche necessarie affinché la Repubblica nuova abbia una Carta Magna adeguata ai nuovi tempi”, aveva detto Chavez annunciando così il suo inedito stile di governo.

Il 15 dicembre del 1999, durante l’alluvione che provocherà la “tragedia del Vargas”, la Costituzione viene approvata con 71,78% dei voti.

Una Costituzione molto avanzata, che promette di non rimanere solo sulla carta, come sovente è accaduto in America latina. Inquadra il funzionamento di una repubblica presidenziale unicamerale, basata sull’equilibrio di 5 poteri e sulla “democrazia partecipata e protagonista”.

Ai tradizionali tre poteri delle democrazie rappresentative (legislativo, esecutivo e giudiziario) ne aggiunge altri due: il potere cittadino e quello elettorale. Il Tribunal Supremo de Justicia (Tsj) vigilerà al mantenimento dell’equilibrio tra questi 5 poteri, affinché nessuno possa prevalere in modo anomalo sugli altri. Un equilibrio che, oggi, l’opposizione – maggioritaria in Parlamento dopo le elezioni del 6 dicembre – vorrebbe sovvertire, con il concorso di una sviante propaganda internazionale.

Una costituzione declinata nei due generi, che contempla un vasto spettro di diritti, e stabilisce l’impianto per la ripresa di sovranità nazionale e l’attacco al latifondo.

L’approvazione dell’Assemblea costituente prefigura l’articolazione di un doppio movimento, dal basso e dall’alto: per modificare dall’interno l’architrave del vecchio stato borghese che non è stato sepolto da una rivoluzione di stampo novecentesco. Un doppio movimento che accompagna tutt’ora il cammino del proceso bolivariano verso “la transizione al socialismo” (umanista e ibridato dai principi della Teologia della liberazione).

Un percorso osteggiato fin da subito dai poteri forti. Prima di assumere l’incarico, Chavez aveva compiuto un viaggio a Cuba, in Europa e a Washington, dove si era riunito con l’allora presidente Bill Clinton, a cui aveva promesso di mantenere buone relazioni fra i due paesi: relazioni, però, da pari a pari, e perciò insopportabili per gli Usa.

Dopo aver constatato nei fatti che Chavez non era addomesticabile, la Cia riprenderà a fomentare la natura golpista dell’opposizione venezuelana: una caratteristica che abbiamo visto agire nel corso di questi 18 anni, sostenuta da una poderosa campagna mediatica, più che mai attiva durante il governo di Nicolas Maduro.

Lo scenario che ha portato al colpo di stato contro Chavez, nel 2002, (un golpe organizzato dai vertici padronali, dalle grandi corporazioni mediatiche e dalle gerarchie ecclesiastiche) si è rimesso in moto ora. Anche quest’anno, il governo Usa – che ha definito il Venezuela “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza nazionale” – ha destinato milioni di dollari alle destre venezuelane.

Una parte dell’opposizione – che si riunisce nella coalizione Mud – ha rifiutato il dialogo appoggiato dal papa Bergoglio, dalla Unasur e da alcuni ex presidenti, guidati dallo spagnolo José Luis Zapatero. Molti alti prelati hanno sconfessato la stessa azione del papa che ha ricevuto Maduro in Vaticano, a cui ha simbolicamente regalato un angelo che combatte i demoni. Si può vedere in internet o si possono ascoltare nelle piazze gli appelli di questi religiosi all’uccisione del presidente e alla sovversione.

Per oggi, dopo aver tentato (e fallito) uno sciopero dei camionisti (sul modello messo in atto in Cile contro Allende nel 1973), la Mud ha proclamato uno sciopero generale, che sembra la fotocopia della serrata petrolifera del 2002. E intanto sono ripartite le violenze di piazza, che hanno provocato un morto e diversi feriti tra la polizia: morti e feriti per arma da fuoco, come nel 2014, quando la campagna “la salida” (la cacciata di Maduro dal governo, presentata dalla stampa europea come una protesta pacifica contro un regime totalitario) ha insanguinato il paese con 43 morti e oltre 850 feriti.

Il V incontro di Caracas Chiama indirizzerà un appello solidale alla giovane intellettuale chavista Yuri Patino, brutalmente aggredita da un gruppo di estrema destra e ricoverata d’urgenza, e a tutte le leader sociali, uccise dalle bande paramilitari in un allarmante crescendo di femminicidi.

Il tavolo su Potere popolare e democrazia liberale, evidenzia la coincidenza temporale della questione referendaria, che si pone sia in Italia che in Venezuela, paesi molto diversi tra loro eppure legati da antichi collegamenti e relazioni commerciali. Questo il ragionamento di fondo e la traccia di discussione: nello Stato bolivariano, la richiesta di referendum – attualmente interrotta per palesi vizi di forma e frodi – rappresentava un modo neanche troppo mascherato per interrompere la stagione del chavismo che ha imposto il potere popolare e la “democrazia partecipata” come nuovo paradigma della forma di Stato venezuelana, riconsegnando il paese alle subalternità neocoloniali.

Il referendum di Renzi, il prossimo 4 dicembre, “si inserisce in questo percorso”: il vilipendio degli organi assembleari e una torsione neo-autoritaria della politica, con un messaggio ben definito: “Non bisogna disturbare il manovratore”.

Tuttavia – premette la traccia di discussione – il “No sociale va distinto dalle pantomime di routine delle destre e dei 5 Stelle: al nuovo proletariato dei quartieri periferici, dei lavori precari e delle identità deboli non deve interessare la difesa della democrazia borghese in quanto tale, piuttosto l’acquisizione di una precisa consapevolezza sul legame tra la controriforma di Renzi e l’ulteriore riduzione dei diritti sociali, dei servizi, dei beni comuni, dell’espressione della volontà popolare. Con la vittoria del Si non solo il mondo del lavoro, ma anche la politica tornerà compiutamente all’Ottocento: un gioco tra pochi notabili, che privatizzano le risorse dello Stato e collettivizzano le loro perdite economiche”.

Più in generale – proseguono gli organizzatori – “la vittoria di Renzi porterebbe a compimento un percorso che l’attuale premier iniziò ‘scalando’ il Pd: il venir meno della Politica come momento del confronto e dello scontro, della ricerca del consenso e della produzione del conflitto. In una sola frase, l’esatto opposto della democrazia deliberativa e del potere popolare che l’imperialismo vuole debellare dal Latinoamerica”.

Il tavolo “per un nuovo internazionalismo” vede una nutrita presenza del Comitato immigrati in Italia, che racchiude varie nazionalità e organizzazioni, e si serve dell’integrazione latinoamericana come stimolo al dibattito di casa nostra. “Che posizione dovrebbe assumere questo nuovo internazionalismo di fronte alle guerre ingiuste e di rapina in corso?” Come dovrebbe agire una sinistra europea ispirata a quei principi in merito alla crisi migratoria? Il “modello bolivariano” ha messo in moto il processo di pace in Colombia, che sta ispirando altre situazioni di conflitto nel mondo, come quella nelle Filippine, su cui pure si discuterà con un importante ospite internazionale: Luis Jalandoni, del Fronte democratico nazionale delle Filippine, mediatore nelle trattative di pace in corso tra il presidente Dutarte e la guerriglia comunista.