Quella del pittore fiorentino Carlo Dolci è la storia di un professionista raffinato e coscienzioso, ma drammaticamente sensibile ai giudizi altrui. Il biografo Filippo Baldinucci disegna il percorso della sua vita con un andamento altalenante, fatto di ripetute cadute e faticose risalite. Afflitto da profonda insicurezza, il suo occhio non riusciva quasi ad accettare le imperfezioni e lo costringeva a una lentezza impensabile per il mercato contemporaneo. Tanta era la meticolosità concessa a ogni dettaglio, che c’è da credere fosse la pazienza, e non la perizia tecnica, la qualità più richiesta ai suoi collaboratori. E poi, quando finalmente il capolavoro era pronto, bastava una parola maldestramente interpretata per ispirargli pensieri autodistruttivial punto da giudicarsi inutile al mondo.
Una lunga tradizione storiografica, ancora difficile da mandare in pensione, vede Carlo Dolci e la sua opera come il frutto spontaneo della stagione più conservatrice e bigotta della storia di Firenze. In un susseguirsi di aneddoti dal tono patetico o perfino ridicolo, Baldinucci ce l’ha messa davvero tutta per darci di lui l’immagine di novello Beato Angelico, cioè di artista che rinuncia alla pittura profana pur di assecondare una religiosità totalizzante. Impigliato nella paura di vivere, il pittore avrebbe trovato la sua dimensione più congeniale nella preghiera solitaria e creato il genere delle «mezze figure sentimentali» (la definizione è di Jacob Burckhardt) per cui è diventato famoso, popolato di personaggi lacrimosi e assorti, appositamente atteggiati per suscitare pietà. La grande diffusione di queste opere tra Sette e Ottocento, replicate all’infinito in esemplari di modesta qualità, ha reso Carlo Dolci il padre di tutta l’oleografia da santino popolare e giustifica l’incredulità di tanti amatori ottocenteschi, nel confrontare la fama del pittore in vita con la rozzezza dei suoi lavori allora in circolazione.
Una rassegna, la prima completa esposizione antologica dedicata all’artista – Carlo Dolci 1616-1686 (fino al 15 novembre, a cura di Sandro Bellesi e Anna Bisceglia, catalogo Sillabe, pp. 415) – tenta in questi giorni di offrire una visione più completa della sua opera. La più classica delle mostre, si direbbe. Eppure, a ben guardare, una ragione per stupirci c’è. L’inquieto pittore fiorentino è celebrato nelle sale della Galleria Palatina con il meglio della sua produzione pittorica e grafica, suggerendoci una complessità professionale non del tutto scontata.
La rassegna offre l’occasione di sganciarsi finalmente dal sentito dire e dal ripetuto in favore di una diretta conoscenza dell’opera del Dolci. Chi si aspetta quindi una mostra montata come un susseguirsi di Madonne e santini rimarrà forse piacevolmente deluso. È vero, i tanti quadri del Dolci privilegiano contrite meditazioni alle forme voluttuose e ambigue di un Furini. A vederle una accanto all’altra però, e potendone apprezzare il virtuosismo tecnico con cui l’artista suggerisce la verità delle superfici, si capisce che in quelle icone barocche convivono senza contrastare pietà e opulenza, evanescenza e materialità. Per quanto contrite, livide e sfuggenti le sue figure sono sempre vestite di abiti e accessori alla moda, minutamente delineati. Accorgersene ha il sapore quasi della sorpresa. Le tante copie e riproduzioni tratte dalle sue opere ne hanno sicuramente alterato la conoscenza, concentrandosi più sui dettagli spendibili a scopo devozionale, come i volti esangui, che sullo sfarzo degli abiti, che a vederli dal vero sono sbalorditivi. È come se per un attimo Dolci smettesse i panni del pittore fanatico in cui la storiografia ha voluto ingabbiarlo e desse libero sfogo alla sua più segreta passione per il lusso e per una paziente riproduzione della realtà in alta definizione.
La mostra si nutre delle più felici intuizioni emerse negli ultimi cinquant’anni di studi e in particolare degli appassionati contributi di tre studiosi, Carlo Del Bravo, Günter Heinz e Charles McCorquodale, che a partire dagli anni sessanta hanno ridefinito l’immagine storica di Carlo Dolci. La sua sensibilità pittorica e figurativa ha trovato così chiara collocazione nel rapporto con la tradizione fiorentina, in particolare quella cinquecentesca del Bronzino, nell’ambito di una corrente sì purista, ma anche aperta alle suggestioni naturaliste della pittura olandese. Dopo queste prime fondamentali ricerche, gli studi hanno fatto decisivi passi in avanti e si può dire che la conoscenza attuale del Dolci e del corpus delle sue opere, libero finalmente da copie di second’ordine, sia avanzatissima.
Dovendosi confrontare con una personalità abbondantemente ricostruita, l’esposizione di palazzo Pitti si pone nella tradizione delle passate mostre sul barocco fiorentino (Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III del 1986 e Un’altra bellezza. Francesco Furini del 2007-’08), senza aspirare certo a proporre novità o esporre inediti. Muovendosi da una sala all’altra si ha però modo di apprezzare la completezza della rassegna favorita indubbiamente dal formato medio prediletto dal pittore, che lavorò poco a pale d’altare e a opere di grandi dimensioni. Il percorso espositivo copre l’intera carriera dell’artista, a cominciare dalla prime creazioni, ancora legate al maestro Jacopo Vignali, come il San Giuseppe che mostra la croce a Gesù Bambino (Marsiglia, Musée des beaux-arts). Da segnalare poi la Salomè con la testa del Battista (Windsor, The Royal collection) scelta dai curatori a illustrare la copertina del catalogo, in cui il virtuosismo nel riprodurre un variegato repertorio di alta sartoria e oreficeria raggiunge esiti notevolissimi. Tra le molte opere di indiscutibile qualità che si possono vedere ci sono poi la Madonna dei gigli, in prestito da Monaco di Baviera (Alte Pinakothek) e il Gesù bambino con una ghirlanda di fiori (Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza), esemplari per l’armonica convivenza di due generi della pittura, quello dell’arte sacra e quello della natura morta.
Le frequenti incursioni nel genere del ritratto rappresentano quasi l’unica concessione laica all’esclusiva fedeltà del Dolci alla pittura sacra. In questo campo emerge il precoce Ritratto di Stefano della Bella (Firenze, Galleria Palatina), opera di un Carlo addirittura quindicenne ma già sapiente pittore.
Il tentativo di riconnettere l’artista col tempo in cui visse avrebbe forse richiesto, da parte dei curatori, un maggiore sforzo divulgativo nel raccontare il suo svolgimento umano e professionale. L’assenza di un numero sufficiente di didascalie, forse per sganciarsi quanto più dallo stereotipo baldinucciano, costringe il visitatore a un percorso in solitaria, lasciando intendere che il valore del Dolci si fermi a quello che la sola vista può percepire, ovvero una pittura di alta qualità. Così come è lasciata all’intuizione anche la discendenza formale tra le opere dei maestri e quelle del giovane pittore. Soembrano timidi e poco strutturati, ad esempio, i confronti tra i presunti modelli d’ispirazione dell’Adorazione dei pastori (Cleveland, The Cleveland Museum of art) esposta nella seconda sala accanto ai quadri di Matteo Rosselli e di Cristofano Allori, apparentemente affini solo per il soggetto, mentre più chiaro è il confronto tra la Cena in casa del Fariseo del Cigoli (Roma, Galleria Doria-Pamphilj) e la copia rielaborata dal Dolci (Stoccolma, Nationalmuseum). Poco esplorata poi risulta anche l’affascinante ipotesi di Carlo del Bravo di accostare la tecnica iperrealistica del Dolci alla pittura olandese contemporanea. Si è persa l’occasione di verificare finalmente con confronti diretti la fondatezza di quella proposta.
All’uscita dalla mostra si avrà così l’impressione di avere bene in mente la precisione e l’accuratezza, sicuramente poco comuni ai contemporanei, raggiunte da Carlo Dolci, ma forse mancherà un’idea più chiara sul suo ruolo storico. Il Dolci non è il più importante pittore del barocco fiorentino, come troppo entusiasticamente è stato detto. Equidistante da Francesco Furini per i temi e da Cecco Bravo per la precisione formale, è però personalità di primo piano nella storia della pittura, inventore cosciente di un vero e proprio repertorio devozionale di grande successo negli ultimi tre secoli. Chi vuole conoscere l’intera (o quasi) sua opera non può perdere questa occasione.