Che cosa significa “coalizione sociale”? Il susseguirsi delle precisazioni e dei distinguo indica che la risposta non è semplice né univoca. Di certo il nome non è conseguenza delle cose. Le quali, nel nostro Paese, indicherebbero piuttosto una società poco incline alle coalizioni, tutt’ora pervasa da pulsioni corporative saldamente radicate nella sua storia, attraversata da conflitti che faticano a parlarsi e riconoscersi a vicenda. Se non si tratta di una formula generica da spendersi nelle dispute interne ai contesti politici canonizzati per ridefinirne gli equilibri, tuttavia, ha il valore di una presa di coscienza, sia pure tardiva, delle trasformazioni che hanno investito non solo il lavoro, ma l’insieme dei rapporti sociali, delle prospettive di vita individuali e collettive.

Il problema che l’idea stessa di “coalizione sociale” mette a fuoco altro non è, per farla breve, che quello di una soggettività politica all’altezza dei tempi. La quale precede, e spesso contraddice, il tema, ampiamente screditato dalle poco brillanti avventure elettorali, parlamentari e convegnistiche dell’agognato “nuovo soggetto politico”. Una “soggettività politica” è, in primo luogo, un modo di guardare alle cose e di relazionarsi ad esse sul piano dell’azione e dell’organizzazione.

Persino Susanna Camusso la rivendica al suo sindacato, ma si tratta, appunto, di una “soggettività politica” prigioniera dell’ottica sindacale, che guarda anche a questioni generali, ma dal punto di vista di specifiche condizioni di esistenza, parziali, semplificate e circoscritte, per giunta, ai loro aspetti “sindacalizzabili”. Per scendere nel concreto tramite un esempio, una siffatta “soggettività” difficilmente potrà venire a capo di una contraddizione, tipica del nostro tempo, come quella tra industrializzazione e questione ambientale.

Il fatto che mette in gioco l’idea della “coalizione sociale”, a prescindere dalle forme che potrà assumere e dalle sue possibilità di successo, è l’indiscutibile indebolimento della prospettiva sindacale. Insidiata su due fronti principali. Il più evidente è quello del lavoro intermittente e precario, del lavoro autonomo impoverito, e del “non lavoro” produttivo ma a reddito zero che non solo lo statuto degli anni’70, ma l’intera cultura sindacale e la sua organizzazione per categorie non abbraccia, non contempla e nemmeno capisce. Avendo lungamente coltivato l’idea, ingenua a voler essere clementi, che si trattasse di una “anomalia” provvisoria destinata ad essere riassorbita nel lavoro a tempo indeterminato. Un atteggiamento, questo, che ha agevolato quanti giocavano il precariato, senza peraltro tutelarlo in alcun modo, contro l'”egoismo” degli occupati. Con un discreto successo di pubblico.

Il secondo fronte, quello meno evidente, è la mutazione che ha investito la stessa figura del lavoratore stabilmente occupato (ma sempre più ricattabile e minacciato). Questa figura è divenuta più complessa e sfaccettata di un tempo, non più interamente centrata sull’identità conferita dal lavoro, ma arricchita da domande culturali, da desideri di libertà, da interessi molteplici e aspirazioni di crescita individuale che mal si conciliano con i “sacrifici” sempre più pesanti, scambiati con il mantenimento del posto di lavoro. La stessa espressione “mercato del lavoro” suona oggi, nella sua presunta autonomia “tecnica”, come una ingannevole astrazione.

Le percentuali vertiginose della disoccupazione giovanile discendono, anche se solo parzialmente, da questo genere di resistenze esistenziali, effettive o anche solo temute dalle imprese, decisamente restie ad assumere possibili piantagrane. Sono soprattutto questi elementi ad avere gravemente ridotto la forza contrattuale del sindacato e, soprattutto, la sua capacità di parlare all’insieme della società. Senza contare l’insufficienza della dimensione nazionale per qualsiasi ipotesi di cambiamento o anche di pura e semplice difesa dei diritti acquisiti. La prospettiva sindacale, arroccata nella sua tradizione, è altrettanto impotente quanto quella nazionale abbarbicata alle sue antiche prerogative.

È in questo contesto di radicale mutamento e commistione delle condizioni lavorative ed esistenziali che hanno cominciato a svilupparsi, per approssimazione, concetti come quello di “sindacalismo sociale” e strumenti di lotta, ancora piuttosto indistinti, come lo “sciopero sociale”. Alla ricerca di una soggettività politica che faccia dello “stare in società”, meglio del “produrre società” il teatro di un agire efficace, che cancelli il confine, scomparso nei fatti, ma persistente nella dottrina, tra dimensione sindacale e dimensione politica. Questa divisione dei compiti tra partito e sindacato risale a una impostazione antropologica fondata sulla distinzione tra l’immediatezza dei bisogni e la lungimiranza della “coscienza” (per quanto riguarda la tradizione socialista) o sulla capacità “professionale” di tenere in equilibrio interessi contrastanti proteggendo adeguatamente l’ordine proprietario ( per quanto riguarda il parlamentarismo liberale). Su un’idea di soggettività, dunque, quella proletaria e quella borghese, che dovevano essere “completate” da una guida “specializzata”, dagli strateghi della classe di appartenenza.

Di quel mondo, e del rapporto tra economia e politica che lo caratterizzava, non v’è più traccia. Resta, invece, fluttuando nel vuoto di una storia conclusa, la difesa, tipica di una antica tradizione corporativa, delle rispettive sfere di “competenza”, dei “segreti professionali” tramandati dai maestri agli apprendisti anche quelli apparentemente più ribelli. Partiti che si autoriproducono in vitro con pochi elettori e ancor meno iscritti, comprese le folkloristiche opposizioni interne; sindacati ben attenti a rimanere “parte sociale” senza immischiarsi in ciò che non li riguarda, ma che riguarda, eccome, la vita di coloro che pretendono di rappresentare, nonché di molti altri la cui esistenza, consumandosi fuori dalla sfera di azione sindacale, non è che un “dramma” imprevisto e ingombrante. Se “coalizione sociale” significa che la politica non abita più né dalla prima, né dalla seconda parte è una prospettiva benvenuta. Se prende atto della crisi della rappresentanza, senza la pia illusione di poterla ripristinare, può essere un’occasione.

Su questa prospettiva incombono, tuttavia, due probabili derive. La prima è quella di una sommatoria di associazioni e soggetti collettivi gelosi delle rispettive identità, ma accomunati dalla denuncia di una politica divenuta “asociale” e ostile ai segmenti più deboli della società. Qualcosa di non molto dissimile dal mito della “società civile” in cui defluì il movimento altermondialista dei primi anni 2000 con l’esperienza, presto trasformatasi in “alterparlamentare”, dei social forum. Ma senza lo slancio, l’azzardo e l’entusiasmo che caratterizzarono quegli anni. Una “coalizione”, insomma, nella quale obiettivi apprezzabili e settori specifici di intervento sociale e politico si affianchino senza però stabilire nessi cogenti. Nella quale interessi comuni e reciproche indifferenze convivano in una condizione fragile e sostanzialmente instabile tenuta insieme da occasionali mobilitazioni.

La seconda deriva possibile, di segno contrario, è una pretesa di sintesi, l’aspirazione a istituire una rappresentanza dei movimenti intesi come semplici portatori di “istanze” che altri dovranno poi trasformare in programma politico. In poche parole, una restaurazione, in altri termini, della divisione di compiti e dei rapporti gerarchici tra la dimensione politica e quella sindacale.

Come sfuggire a queste alternative fallimentari resta un problema aperto. Ma quel che deve essere chiaro è che, comunque si voglia chiamare la direzione in cui muovere, “coalizione sociale”, “nuovo soggetto politico” o “sindacalismo sociale”, non basterà affiancarsi come una sorta di “terzo settore” alla sfera della politica e a quella del sindacato lasciandone intatti poteri e dispositivi di perpetuazione. Quando si tratta di reinventare la politica bisognerà pure entrare in rotta di collisione con le forze che si sono insediate al suo posto.

La crisi della forma partito ha trovato una sua soluzione a destra: partiti-azienda, partiti-ditta, partiti della nazione, monocratici, mediatici, oracolari, trasformisti, postparlamentari. C’è da dubitare che da qualche costola, miracolosamente sana, di queste formazioni possa prender avvio una diversa direzione di marcia. La crisi della forma-sindacato è, invece, ancora aperta. E anche quella dei movimenti lo è. Ma se non riusciranno, in un modo o nell’altro, a entrare in relazione con la dimensione politica (forza, efficacia, durata, organizzazione) non è fuori luogo profetizzare, anche in questo caso, una soluzione a destra: quella neocorporativa.