Il matrimonio vittoriano si estinse negli ultimi anni dell’Ottocento, alla maniera dei grandi rettili erbivori che perirono sotto una tempesta di asteroidi. Le maestose famiglie di nove o dieci figli, come nel caso di Hopkins, Woolf, Compton-Burnett e altre meno note, lasciarono eredi refrattari all’eterosessualità e alla procreazione. Casa di bambola era uscito nel 1879, e quella che possiamo considerare la sua risposta maschilista, Il ritorno di Joseph Conrad, uscì nel 1898, dopo vari rifiuti editoriali, insieme ad altri Racconti inquieti. I critici lo considerarono un fallimento e Conrad stesso ne era persuaso. «Lo odio» scrisse anni dopo, e nella nota introduttiva tentò di trovare una metafora che spiegasse il suo profondo disagio: rileggendolo si era sentito come sotto un grande e costoso ombrello di seta, su cui tambureggiassero pesanti gocce di pioggia. «Nel tumulto generale si può distinguere il colpo di ogni singola goccia…», ossia le impressioni fisiche, la stazione, le strade, un cavallo al trotto, i riflessi negli specchi, il ricco interno di una casa borghese, un insieme «sublimato che in qualche modo produce un sinistro effetto».
Ma l’intelligente curatela di Benedetta Bini di questa edizione italiana: Il ritorno (Marsilio, pp. 184, euro 16,00) prepara il lettore a scoprire un insolito Conrad, che da scrittore soggettivo, sfumato di ombre e suggestioni, si è improvvisamente scoperto scrittore oggettivo come il fraterno rivale, Kipling. Bini divide il suo discorso introduttivo secondo i luoghi in cui si sposta il protagonista, Alvan Hervey, e di conseguenza si inscenano i suoi incalzanti flussi di coscienza: esterno londinese, interno borghese, stanza degli specchi, sala da pranzo, salotto, camera da letto. L’impianto è teatrale, non c’è dubbio. Il marito prima abbandonato, poi sfidato dal ritorno della moglie, sperso tra l’indifferenza delle cose, è invaso, travolto, violentato da passioni urtanti e contraddittorie. «La violenza del breve tumulto dentro di lui era stata tale da scuotere il creato intero; eppure niente era cambiato. Guardò sua moglie, in quella stanza familiare, in casa sua. Niente era crollato. E a destra e a sinistra un numero infinito di case, l’una accanto all’altra, avevano resistito all’urto della sua passione, offrendo immobili alla solitudine di quel turbamento, il silenzio severo delle pareti, la discrezione impenetrabile e levigata di porte chiuse, di tendaggi e finestre».
D.H. Lawrence ha scritto che le frasi di Conrad sono come onde e finiscono con un suono secco; permane però l’impressione che non abbia detto tutto quel che intendeva. Qui è la struttura stessa che avanza, ritarda, e inaspettatamente si conclude come nei suoi racconti di mare: navigazione serena, tempesta sconvolgente, spaventosa bonaccia, improvviso incendio, alla deriva o in porto; la fabula è ancora marinara. Impassibile, al centro dell’uragano e del racconto, sta la nave e il suo misterioso destino. La nave è sostituita dalla moglie senza nome che, provata da una sua personale tempesta, siede di fronte al suo giudice. «Lacrime e acqua le rigavano il volto… La trasandatezza dell’aspetto rivelava un abbandono di ogni difesa, quella bruttezza della verità che può esser tenuta lontana dalla vita quotidiana solo con una attenzione instancabile alle apparenze». Quel relitto umano osa scoppiare in una risata alle sue offerte di comprensione, perdono, oblio e promesse implicite di buona condotta per il futuro. Conrad, come James, Hardy, Kipling, è bravissimo nel descrivere i comportamenti femminili, ma si arrende di fronte a una facile sublimazione delle donne tutte: la moglie, le cameriere, la statua femminile che regge le lampade. Secondo Virginia Woolf, di Conrad grande ammiratrice, non ci sono donne nei suoi romanzi, ma solo navi, più belle e femminili delle donne vere, inconoscibili, fredde, statuarie. Lontane dal maschio, forti di «un antagonismo inestinguibile, la sfiducia senza pietà di un eterno istinto di difesa».
Mitizzazione dell’eterno femminino che fa deragliare il romanzo verso sensazionali colpi di scena. Dal logos al melos, ha scritto Edward Said confrontando Conrad e Nietzsche, due nichilisti, che del linguaggio conoscono l’eccesso e la povertà. Sebbene l’estetica di Conrad si basi sulla promessa al lettore di fargli vedere i fatti come si sono realisticamente svolti, però «è spesso evidente che le parole sono in definitiva inadeguate… così speciale e eccentrica è l’esperienza». O dolorosamente incomprensibile e brutale, come nel caso del Ritorno, per cui lo scrittore confessa che rileggendolo rimase «perplesso tutto il giorno, non esattamente perché stupito, ma per una sorta di triste meraviglia».
Non sappiamo quando Conrad pose fine al suo celibato di marinaio, e sposò Jessie Emmeline George, di sedici anni più giovane di lui, dattilografa – che a Lady Ottoline Morrell non piacque mai. È rimasta famosa la sua dichiarazione, avvenuta nella National Portrait Gallery: «Guarda cara, è meglio che ci sbrighiamo e decidiamo di sposarci, sta per mettersi a piovere». Nel dicembre del 1897 (probabilmente l’anno in cui scrisse Il ritorno) in una lettera all’amico Graham Cunninghame descriveva l’incubo della macchina da cucire: «Si è evoluta (sono strettamente scientifico) da un caos di ferraglia e guarda! – cuce. Sono inorridito di fronte all’orribile operato, sgomento. Pensavo che dovesse ricamare – ma va avanti a cucire. Tu dici: ‘Va tutto bene; il problema è l’olio che non è quello giusto. Usiamo questo olio celeste – per esempio – e la macchina farà un bellissimo ricamo di porpora e d’oro’. Lo farà? Ahimè no. Non c’è nessun lubrificante con cui una macchina da cucire possa fare un ricamo. E il pensiero più avvilente è che quella cosa infame si è fatta da sé; si è fatta senza pensiero, senza coscienza, senza visione, senza occhi, senza cuore. È una disgrazia tragica – ed è accaduta. L’ultima goccia amara è nel sospetto che non puoi neanche farla a pezzi. In virtù della verità unica e immortale che si nasconde in quella forza che l’ha spinta a esistere è quel che è – indistruttibile! … Ci cuce dentro e ci cuce fuori. Ha cucito tempo, spazio, dolore, morte, corruzione, disperazione e tutte le illusioni – e niente conta».
Come finirà Il ritorno? Ancora con una sensazione, questa volta uditiva, un rumore secco e definitivo, «una porta sbatté con forza; e la casa tranquilla vibrò in risposta, dal tetto alle fondamenta, con più forza che allo schianto di un tuono». È il marito che esce per sempre dal matrimonio. «È quel balzo improvviso del gatto nella stanza per atterrare sul topo, secondo Virginia Woolf, con cui Conrad riscatta tante sue pagine monotone». Di tanti balzi felini è fatto questo piccolo capolavoro, sfuggito fortunosamente dall’inconscio del suo autore.