È proprio vero che gli atleti africani vincono le gare di resistenza perché provengono dagli altipiani? I talenti sportivi africani sono il frutto di condizioni ambientali e biologiche naturali o di una scuola di atletica? Lo abbiamo chiesto a Manuel Schotté, docente di Sociologia all’Università di Lille 2, che collegando i dati strutturali ed etnografici, evidenzia come il successo sia il risultato di un insieme di fattori solo apparentemente esterni alla carriera sportiva. Manuel Schotté, in Italia nell’ambito delle iniziative promosse da «Prospettive Critiche», sul tema ha scritto La construction du talent: sociologie de la domination des coureurs marocains (Raisons d’agir, Paris), con Sébastien Fleuriel ha pubblicato Sportifs en danger. La condition des travailleurs sportifs (Editions du Croquant, Savoir/Agir).
Professor Schotté perché ha assunto posizioni critiche sui talenti africani naturali di alto livello agonistico?
Molti commentatori sportivi sostengono che gli atleti etiopi, kenioti e marocchini provenienti dagli altipiani africani, si affermano nelle competizioni internazionali della corsa perché le loro caratteristiche fisiologiche sarebbero dovute all’ambiente naturale nel quale vivono. Se fosse vera questa ipotesi anche i nepalesi, i boliviani, i peruviani, che vivono in altitudine dovrebbero avere le stesse performance degli atleti africani, invece nelle gare internazionali conseguono risultati modesti. Si tratta di considerazioni superficiali, in nome delle quali chi le fa è restio a prender atto dei mutamenti che riguardano l’élite dell’atletica mondiale. Chiedo come sia possibile ritenere che l’atletica si evolva, se i fattori naturalistici che determinerebbero la performance sono gli stessi? Nel corso del Novecento, nell’atletica mondiale si è passati dal predominio dei corridori scandinavi, soprattutto finlandesi, negli anni ‘20, agli atleti nordafricani e dell’Africa orientale che si sono imposti nelle gare internazionali a partire dagli anni Ottanta, senza che nell’arco di sessant’anni sia verificato alcun cambiamento nella costituzione biologica di queste popolazioni.
Perché è opinione diffusa che gli atleti neri siano «naturalmente» più dotati?
Quando si sono imposti a livello internazionale i velocisti neri americani, ha preso corpo la tesi secondo cui gli atleti neri sono dotati di una grande velocità, ma di poca resistenza, una tesi smentita dal fatto che gli atleti africani vincono anche nelle gare di fondo. Nonostante studi di carattere biologico abbiano comparato popolazioni con lo stesso livello sportivo e dimostrato che non vi siano dati che possano accertare l’esistenza di diverse tipologie genetiche che porterebbero alla superiorità di un gruppo rispetto a un altro nel campo dell’atletica leggera, stupisce la persistenza di questa tesi e il tentativo di adattarla ogni qualvolta vi siano smentite.
Tanti sostengono che i talenti naturali sono dovuti alle lunghe distanze che in alcune aree devono coprire a piedi per andare a scuola.
Nella regione di provenienza della gran parte dei corridori kenioti vi sono tante scuole, inoltre questi atleti hanno studiato nei convitti, anche i corridori marocchini provengono da contesti urbani simili. Tutto sta nel sostituire le credenze con un’analisi del processo che conduce ai successi atletici dei corridori dell’Africa del nord e di quella orientale da trent’anni a questa parte. È secondo quest’ottica che ho analizzato in un libro il caso degli atleti marocchini vincenti sul piano internazionale dalla metà degli anni ‘80 fino al 2005.
Quali sono le ragioni del loro successo?
Bisogna focalizzare l’attenzione soprattutto sulle condizioni storico-sociali. La nascita di atleti di alto livello agonistico in Marocco è da collegare alla colonizzazione francese, durante la quale vi fu una specializzazione nella corsa da parte dei giovani marocchini, perché era loro precluso l’accesso a tutti gli altri sport, perciò la gran parte dei giovani ha finito per dedicarsi alla corsa con successo. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, in Europa prese forma tra gli atleti una professionalità fondata sull’assenza di stipendio, con remunerazioni proporzionate ai risultati raggiunti, una distribuzione diseguale dei guadagni, la gran parte degli atleti finì per trovarsi in una situazione incerta, difficile sul piano esistenziale. Questa condizione ha fatto sì che larga parte dei corridori europei disertasse il mercato dell’atletica internazionale, lasciando posto a coloro i quali erano disposti ad accettare la precarietà.
L’atletica europea è finita?
Il lento declino degli atleti europei ha inizio a partire dagli anni ‘80, è un declino relativo, visto l’arrivo dei corridori africani nelle alte sfere della gerarchia sportiva, ma anche un declino assoluto perché si assiste ad un netto calo delle prestazioni cronometriche dei migliori atleti europei: nel 1984 ben 92 correvano i 5000 metri in meno di 13’40, mentre dodici anni dopo, nel 1996, erano appena 37, un calo di circa il 60%, in quegli anni il numero di atleti africani che superava questi tempi passava da 14 a 71. Non siamo innanzi a una superiorità innata degli atleti africani, ma a un ricambio delle élite atletiche internazionali, un turn over che si inserisce in un intreccio di storie fra loro parzialmente indipendenti, dotate di profondità temporali diverse, il cui incontro ha però determinato la situazione attuale. Da un lato abbiamo avuto lo sviluppo dei modelli di produzione nazionale di atleti di alto livello agonistico in Kenya, in Marocco, in Etiopia e dall’altro l’affermazione di una forma di professionismo, che conduce alla precarietà la gran parte degli atleti che intraprendono la carriera sportiva, una coincidenza che ha portato i corridori nordafricani e dell’Africa orientale a diventare i protagonisti dell’atletica internazionale. Il mercato professionale dell’atletica diventa fonte di attrattività solo per quegli atleti che sono disposti ad investire energie, aspetto che presume non solo che siano stati adeguatamente formati, ma anche che non abbiano nulla da perdere nel dedicarsi all’atletica. È il caso dei corridori kenioti, etiopi e marocchini, tutti di estrazione popolare, disposti a giocarsi le loro chance, visto che la loro socializzazione sportiva li porta a vedere nell’atletica un’occasione di promozione sociale. Dunque, siamo ben lontani dall’immagine fantasiosa e seduttiva del «corridore naturale». A partire dagli anni ‘80 l’affermazione di una élite atletica in alcuni paesi del Nordafrica e dell’Africa orientale è determinata da un insieme di condizioni storico-sociali specifiche. I recenti successi atletici africani non dovrebbero essere attribuiti a presunte qualità innate di resistenza, ma a un insieme di fattori contingenti. Il caso del Marocco è molto eloquente, visto che a partire dal 2005 è meno prolifico riguardo alla produzione di atleti di alto livello agonistico.
Anche il Marocco si stanno «europeizzando»?
In Marocco permane la volontà di produrre corridori a livello locale, però le trasformazioni della società marocchina, le forme di reclutamento e la formazione, non danno più gli stessi risultati del passato in termini di produzione di corridori di alto livello agonistico, una situazione che ci ricorda ancora una volta la storicità della produzione delle élite atletiche: quando le condizioni che sono alla base dell’affermazione di un gruppo vengono meno i risultati non ci sono.