Non si può dire che la parola «rivoluzione» sia uscita dal nostro lessico quotidiano; al contrario, ogni sommovimento sociale, ogni forma di resistenza, ogni cambio di regime vengono disinvoltamente etichettati come «rivoluzionari» presso un’opinione pubblica dopata da una stampa incline, in genere, più a suscitare emozioni forti (quanto effimere) che a favorire la riflessione. Ecco quindi, specie dopo la fine del socialismo reale, il moltiplicarsi delle rivoluzioni colorate, qualche rivoluzione floreale, o anche una jeans revolution (Bielorussia 2006). Senza contare l’impiego di rivoluzione nella routine politico-amministrativa di questo o di quel paese ogniqualvolta venga formulata una riforma senza la quale – assicura il governante di turno – il paese in questione sarebbe spacciato. Ma questo uso inflattivo di rivoluzione è reso possibile, in realtà, dallo svuotamento del significato suo proprio, o meglio di quello maturato tra XVIII e XIX secolo, quando si identificarono con «rivoluzione» non tutti gli sconvolgimenti dell’ordine politico ma solo quelli carichi (e spesso sovraccarichi) di progettualità alternativa e di aspettative progressive sul futuro.

Questa elementare diagnosi la ritroviamo nel libro che Paolo Prodi dedica appunto al Tramonto della rivoluzione (Il Mulino, pp. 119, euro 11,00) prezioso non tanto nel riepilogo di una delle questioni chiave del vocabolario storico-politico, quanto nell’originale messa in prospettiva di un nodo tra i più attuali (e tra i più discussi). L’esaurimento della rivoluzione vi appare come momento, e sintomo, di un fenomeno più largo e più denso: il comprimersi del tempo storico, l’appannarsi dell’orizzonte delle attese di cui tanto si dice (in modi, peraltro, sempre più ripetitivi), il senso dell’immodificabilità di un eterno presente governato da leggi sulle quali il prodotto maggiore della modernità politica – lo stato sovrano, e poi la democrazia rappresentativa – nulla più possono.

Più che essere raccontata una qualche storia meritevole di attenzione, viene dunque rivelata la densa stratigrafia di un aspetto decisivo della nostra attualità. «I fenomeni strutturali hanno una loro forza che va al di là di ogni cincischiamento politologico» – ammonisce a un certo punto, perfidamente, Prodi, con riferimento al declinante trend demografico dell’Europa. Ora, questa strutturalità è, per intellettuali come lui, innanzitutto e eminentemente storica. È grazie alla storia che è possibile decifrare la specificità occidentale della rivoluzione, intesa dunque come una delle forme fondamentali della dialettica fra poteri diversi e spesso in conflitto, religioso da una parte, politico-temporale dall’altra; privi entrambi, tali poteri, della possibilità del monopolio. Si tratta di una configurazione che si viene formando all’inizio del secondo millennio e che nasce dalla rottura di quella precedente tardoantica e altomedievale, ma anche, ad altre latitudini, bizantina e islamica, segnata all’opposto dalla sovrapposizione di regno e sacerdozio.

Nel quadro di lungo periodo segnato da questo dualismo emerge gradualmente uno stato di «rivoluzione permanente» che è uno dei tratti distintivi nell’Europa moderna. L’istanza che le è propria riprende e trasforma una funzione svolta per secoli dalla profezia religiosa: la denuncia del male politico come tradimento del messaggio di Dio. Satura di questa eredità, la rivoluzione si carica di una promessa di futuro radicalmente utopica, ma capace di incarnarsi in luoghi quali la patria, l’umanità, la classe.
La fine del mito della rivoluzione trascina dunque con sé la fine della capacità di mettere sotto processo il presente, e il termine del senso stesso di un «diritto» al futuro. Più in profondità, però, essa è il segno dell’esaurirsi della dialettica tra i poteri e del loro reciproco contenimento, preannunciato nel Novecento dall’affermazione di vere e proprie religioni politiche all’interno delle esperienze totalitarie. Ed è qui che la zampata di Prodi produce l’effetto più destabilizzante: denunciando la confusione, se non l’identificazione, di poteri un tempo distinti all’interno di un unico santuario disciplinare, produttivo di norme a un tempo etiche ed economiche, di comandi politici e di prescrizioni comportamentali: l’ordine che ne risulta viene avvertito come irriformabile e invalicabile. Non solo: anche nel mondo islamico, o in una parte di esso, là dove non si è compiuta la distinzione fra stato e chiesa, si assiste oggi al radicalizzarsi di un’osmosi fra legge religiosa e legge politica per molti versi speculare al nuovo monismo occidentale. Nella denuncia della violenza terroristica come definitivo altro da sé l’Occidente tende a rimuovere il tratto in comune, e la comune radice delle culture fondate sulla religiosità monoteistica del libro.
Non se ne fa mistero: si sta parlando dell’ordine neoliberale globalizzato e della qualità postdemocratica delle sue istituzioni: «La civiltà dei consumi tende a unificare la terra (…) con la costituzione di un’identità collettiva unica che può disfarsi dei costi e degli affanni della democrazia e dei diritti soggettivi», ossia di alcuni beni (o valori) politici progettati e (precariamente) acquisiti per via, appunto, rivoluzionaria. In questi avvertimenti risuonano, tragicamente, gli echi, anche primo-novecenteschi, di un profetismo laico al quale siamo, con ogni evidenza, disabituati.

Può suscitare disagio l’implacabile sottolineatura dell’eccezionalità europea, messa sotto scacco dalle nuove «religioni politiche e – vorremmo dire – economiche». Eppure questa evidenza non possiede alcuna modalità apologetica: il tema essendo proprio quello del declino di una modernità politica attraversata in passato da conflitti e cambiamenti e oggi rimpiazzata da una costellazione di poteri irresponsabili, sovranazionali, e talora globali, economici e politici insieme, apparentemente inattaccabili, e, quel che più vale, protetti da una rinnovata aura di sacralità. Impermeabili, parrebbe, alla critica di una ragione rivoluzionaria spentasi insieme al loro trionfo.