Il tonfo era prevedibile, anche se non previsto perché nella Brexit non ci credeva nessuno. Il crollo no, e invece proprio di questo si è trattato: Milano chiude a -12,48% siglando così la sua giornata più nera nella storia. Insegue da vicinissimo la piazza più colpita, che tanto per cambiare è Atene con un -13,43% ed è a sua volta tallonata da Madrid, che registra un -12,35%. Londra no. Nell’occhio del ciclone la borsa ha perso appena il 2,76% e in più sconta una inflazione, messa in conto e probabilmente anche auspicata, della sterlina. Ad affondare le borse un po’ ovunque ma nell’Europa meridionale molto più che altrove sono i titoli bancari. Ad Atene precipitano del 30%. In Italia, con una picchiata di quasi il 20%, non va molto meglio.

Se si tratti solo di una tempesta violentissima ma passeggera o peggio lo si capirà lunedì, alla riapertura di piazza Affari, ma il segnale è comunque sinistro. Nelle ultime settimane, mentre i media in coro profetizzavano l’apocalisse per il Regno unito in caso di vittoria del Leave, alcuni economisti avevano segnalato che il Paese reprobo è in realtà importatore netto, in particolare proprio dall’Italia, e dunque non “punibile” dalla Ue se non a costi altissimi per la Ue stessa. In più dispone del Commonwealth ed è probabile, se non certo, che svincolata dagli obblighi europei l’Uk riprenderà le relazioni commerciali con la Russia di Putin, evitando quelle sanzioni che sono invece dannosissime per l’Italia. In soldoni, non è escluso che il divorzio si riveli un affare molto più gravoso per l’Unione abbandonata che per la Gran Bretagna abbandonante.

Quando in mattinata arriva in conferenza stampa, Matteo Renzi è ben consapevole della gravità del momento, anche se ci vorranno ore perché il disastro si riveli nella sua piena portata. Ha già parlato con Cameron e con le cancellerie di Berlino e Parigi, il vertice a quattro, con anche il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, è fissato per lunedì, dopo la relazione del premier sulla quale il Parlamento sarà poi chiamato a votare. Il format delle conferenze stampa dei tre capi di Stato è stato messo a punto e concordato. Più tardi Renzi si sentirà al telefono con l’ex nemico Juncker e concorderà un incontro per oggi a cena con Hollande, a Parigi.

Si chiude così una parabola. Renzi è finalmente parte integrante dell’establishment europeo, accolto quasi con pari dignità nella cabina di regia sin qui solo franco-tedesca. Le ambizioni rottamatrici con le quali il ragazzo di Rignano si era affacciato sul proscenio sono un ricordo. È anche vero che nel clima un po’ forsennato di ieri, costellato da umori da “radiose giornate” del 1914 con i perfidi inglesi al posto degli odiati crucchi, pochi si sono ricordati delle responsabilità pesantissime della Ue e della Germania nella situazione che si è determinata: il Pd Lumia, i dirigenti di Si Fassina, Fratoianni, De Petris, e a sinistra quasi nessun altro.

Tutto quel che il premier italiano concede all’obbligo di invertire la disastrosa rotta europea è ammettere, dopo il proclama «l’Europa è la nostra casa», che la magione necessita «di qualche ristruttrurazione» e forse ha anche bisogno «di essere un po’ rinfrescata». Nulla di più. Ma non è per questo che Renzi ha convocato la stampa. Il cuore del messaggio è una tempestiva rassicurazione: «Il governo e le istituzioni europee sono in grado di garantire con ogni mezzo la stabilità finanziaria e la sicurezza dei consumatori». Sul fronte dello spread la strategia di Mario Draghi ha funzionato, con un picco intorno ai 185 punti di stacco rispetto ai titoli tedeschi subito riportato a 150, molto lontano dai 200 punti temuti alla vigilia.

In Borsa però la musica è stata ben diversa, e Renzi, a sera, confessa la sua estrema preoccupazione al ministro degli Interni Alfano e ai presidenti delle commissioni Esteri Casini e Cicchitto. Il vertice serve a studiare una strategia comune con i popolari europei per “fermare i populisti”, in soldoni per spingere la Germania a cedere sulla rigidità dei parametri prima che sia troppo tardi. A breve Renzi teme gli effetti della Brexit sull’economia reale, paventa l’avvio di una nuova fase di recessione. Ma sui tempi medi l’incubo si chiama referendum. Non quello sulla permanenza dell’Italia in Europa che vorrebbe Salvini. Che il capo leghista lo chieda è nell’ordine delle cose, ma è solo propaganda. Quella consultazione è vietata dalla Costituzione italiana e comunque il leghista verrebbe sconfitto. Sul referendum di ottobre sulla riforma costituzionale la situazione è molto diversa.

Prima di tutto perché il premier progettava un colpo di scena di massimo effetto propagandistico sulla soglia del voto, portando a due sole le aliquote Irpef. Sarebbe stato difficile comunque ma la situazione economica che si potrebbe determinare nelle prossime settimane minaccia di vanificare il miraggio. Ma soprattutto perché, se questo è il vento che tira in Europa e nel mondo, il primo a farne le spese potrebbe essere proprio lui, l’ex rottamatore diventato uomo dell’establishment europeo al momento sbagliato.