Nel maggio 2013 il nuovo poderoso romanzo di Dan Brown, Inferno (522 pagine), veniva anticipato nelle librerie italiane da un agile e scrupoloso saggio accademico, Guida all’inferno (172 pagine), di Marco Santagata, docente di letteratura italiana all’Università di Pisa, per la stessa casa editrice, la Mondadori, con una fascetta gialla con la scritta «Quello che dovete sapere per entrare nel mondo del nuovo thriller di Dan Brown».

Strategia di marketing e politica culturale andavano a braccetto, mescolando in ardito ossimoro studio e intrattenimento: che l’accademia dovesse andare a rimorchio di un bestseller, per di più di un autore palesemente privo di ogni forma di sofisticazione intellettuale, faceva soffrire solo i più nostalgici partigiani della cultura alta, ma che il Dante ‘americano’ fosse ormai inevitabilmente e inesorabilmente più attraente di quello ‘italiano’ anche nelle librerie del Bel Paese suscitava ancora un brivido in chi è cresciuto con l’idea che Dante sia «l’italiano più italiano che sia stato mai», come scriveva Cesare Balbo in pieno Risorgimento, o che «Firenze ha fatto Dante, e Dante ha fatto l’Italia», come ha ribadito più di recente Matteo Renzi.

Piuttosto che rinchiudersi in campanilistiche rivendicazioni o abbandonarsi acriticamente alle trasformazioni, converrà interrogarsi, come fanno da anni i critici e gli storici di cultura anglosassone, sui processi di adattamento e appropriazione, che segnano le rotte della contemporaneità.

Aiuta in questa direzione l’ultimo libro di Nick Havely, professore di English and Related Literatures all’Università di York: Dante’s British Public Readers and Texts, from the Fourteenth Century to the Present (Oxford University Press, pp. 355, £ 65), che spiega come e perché Dante è potuto diventare inglese.

Il libro si colloca nell’onda strabordante dei reception studies, che indagano usi e abusi del passato nel corso del tempo, ma è molto di più di una storia culturale della fortuna anglosassone di Dante: tracciando il percorso fisico dei libri, da dove sono partiti a dove sono arrivati, Havely mira a ricostruire la geografia materiale dell’anglizzazione di Dante, da Milano a Mumbai, da Berlino a Cape Town. Dimentichiamo troppo spesso, infatti, che i percorsi della cultura sono prima di tutto percorsi di libri, che diventano poi percorsi di citazioni, allusioni, echi e rimandi, sul web, sulle insegne, nella pubblicità o nei discorsi dei politici: popolarizzazione, si direbbe col linguaggio critico anglo-americano, nel doppio sentire di diffusione e di abbassamento. Il lettore che cercasse riferimenti a Chaucer e Milton, Eliot e Pound, Joyce e Beckett, fino a Ted Hughes e Seamus Heaney, resterà quindi deluso, perché obiettivo del libro non è ricostruire – filologicamente o poeticamente – la presenza di Dante nella letteratura di lingua inglese, ma capire – storicamente e culturalmente – le condizioni (intellettuali, religiose, politiche, bibliografiche, testuali) di quella presenza: come Dante ha circolato, attraverso quali veicoli e per iniziativa di chi.

Qualche anno fa Dennis Looney, professore di Italian and Classics all’Università di Pittsburgh, aveva studiato la penetrazione dantesca nei canti di liberazione dei neri d’America tra Otto e Novecento, individuando nell’ispirazione religiosa e nella figura del cammino le ragioni principali di un’adesione culturale ed emotiva, mediata naturalmente dalle grandi Università cattoliche del Nord America (Freedom Readers: The African American Reception of Dante Alighieri and the Divine Comedy).

Havely fa ora un passo avanti (nella ricerca), che è in realtà un passo indietro (nella storia): va all’inseguimento di ciò che è venuto prima, la trasmissione su cui si sono fondati i processi di appropriazione, rifacimento, contaminazione, ideologizzazione e trasposizione. Oggetto del suo interesse sono perciò avventure individuali, dibattiti fra religiosi, commerci fra aristocratici, ideologizzazioni di propagandisti, intuizioni di grafici e pubblicitari.

Punto di partenza è il manoscritto Hamilton 207 della Staatsbibliothek di Berlino, uno dei più antichi codici della Commedia (XV sec.), che il 1º agosto 1451 si trovava certamente a Londra, oggetto di una transazione commerciale tra italiani: non vi rimase a lungo, ma vi ritornò all’inizio del XIX secolo come parte della grande acquisizione libraria di Alexander-Douglas Hamilton, fanatico collezionista di libri e dipinti italiani, che nel 1802 comprò ben sette codici della Commedia, incluso quello con le illustrazioni di Botticelli.

La storia del manoscritto rispecchia la fortuna di Dante in Gran Bretagna: presente quasi solo nei circoli religiosi fino al Settecento, nel corso dell’Ottocento, egli diventa ‘the central man of all the world’ (Ruskin), al punto che ‘the Nation that has a Dante is bound together as no dumb Russia can be’ (Carlyle), mentre tra fine Otto e inizio Novecento è proprio la mediazione inglese a far penetrare Dante come classico mondiale in altre culture, attraverso la donazione di manoscritti alle biblioteche di Elphinstone in India e di Grey in Sud Africa, l’attività di collezionisti e studiosi anglo-fiorentini (Isabella Macleod, Francis Brooke, Lord Vernon, Seymour Kirkup) e la vendita della collezione Hamilton al governo tedesco nel 1882.

Qui il cerchio si chiude: la perdita dei manoscritti danteschi (oltre che dell’intera collezione), in particolare del codice botticelliano, venne percepita non solo come una ferita all’orgoglio nazionale britannico, ma come una sconfitta della democrazia, perché Dante era accessibile a ‘millions’ in mani inglesi, ma sarebbe stato letto solo da ‘a very small per cent’ di questi millions una volta trasferito in Germania. Proprio quel Dante e quel Botticelli che erano diventati paradigmi artistici e morali nell’ultimo terzo del XIX secolo grazie anche agli scritti di Walter Pater e John Ruskin, come testimonia il dibattito del tempo sul Times.

Destituito d’italianità e investito di universalità, Dante poteva ormai facilmente entrare, su un percorso di lunga durata, non solo nei canti spiritual dei neri d’America indagati da Looney, ma anche nell’universo Marvel, che dedicava una storia della saga X-Men all’inferno del mutante Nightcrawler, ‘oltre l’oscura porta dantesca’, piena di citazioni letterali in italiano e in traduzione, dove ‘Doctor Strange, Master of the Mystic Arts, Sorcerer Supreme of Earth’ funziona come un nuovo Virgilio, consapevole del testo originale e pronto a districarsi di fronte alle insidie postegli da un nuovo Minosse, ovviamente un gestore di nightclub.
C’è da chiedersi dove finiscano Dante, il suo testo, la sua estetica e la sua poetica, i suoi messaggi e persino le sue strumentalizzazioni in questa serie di palinsesti più o meno parodici che lo lasciano ormai sullo sfondo; ma quando si interroga un classico, come ammoniva Italo Calvino, non si può fare a meno di considerare il rumore che quel classico ha provocato, se non altro per recuperare la purezza del suono, oppure per contaminarlo finalmente con quella metamorfosi che è la sola garanzia di sopravivvenza nel tempo. Libri come questo consentono di liberarsi dall’aforisma proposto da Giovanni Papini nel 1905, che sembra ancora di grande attualità: «Alcuni adulatori di loro stessi e dell’Italia contemporanea hanno inventato questa legge: quando l’Italia è stata grande ha studiato molto Dante.

Corollario: il nostro tempo si occupa moltissimo di Dante, dunque il nostro tempo è grande e noi, che ci occupiamo di Dante, partecipiamo di questa grandezza. Questo ragionamento implicito dei nostri dantisti è molto confortante e per loro e per l’Italia, ma si vede subito ch’è costruito sopra una parola equivoca: quella di studio. Leviamo dunque di mezzo, una buona volta, questo equivoco, per quanto gradito e fruttuoso possa essere».