C’è anche una striscia lasciata dal comunismo italiano nel successo di Alexis Tsipras. Non solo perché nella piazza di Atene si festeggia alle note di «Bandiera rossa» e di «Bella ciao». Cioè di melodie da tempo rimosse dalla politica italiana, con il Pd che in piazza suona solo l’inno nazionale! Ma perché Tsipras conosce (anzi, come dice lui in un libro-intervista «La mia sinistra» appena pubblicato da Bordeaux, ammira e guarda con un «atteggiamento reverenziale») la storia del Pci, da Togliatti a Berlinguer.

E a quella vicenda interrotta, ma anche alle mobilitazioni di massa degli anni successivi che hanno avuto Genova come loro teatro simbolico, ha ispirato il suo addestramento alle armi della politica.

Tra i suoi referenti ideali assume Marx, Lenin, Gramsci. Solo chi attinge dalle categorie del grande Novecento è capace di andare oltre, per cogliere le novità, per arricchire i linguaggi e le tecniche, per ampliare i referenti sociali, per affinare l’invenzione organizzativa e approntare l’offerta comunicativa.

E al Novecento greco, europeo e pure italiano (di cui rammenta, come fascinoso precedente ideale, «la vittoria storica del Pci alle elezioni europee del 1984, poco dopo la morte di Enrico Berlinguer») Tsipras fa riferimento come a cose metabolizzate, a speranze di innovazione che vivono sottotraccia. Non sarà agevole per lui governare un paese allo stremo con la sua proposta di un «nuovo New Deal europeo», resistere ai ricatti delle potenze (non solo) economiche europee e reggere l’onda anomala del consenso quando una vittoria è celebrata sulle fumanti macerie sociali della crisi.

Ma in Grecia è maturata la prima risposta di sinistra alla grande contrazione economica del capitalismo finanziario che ordina l’impoverimento di massa e celebra la disperazione quotidiana come prova dell’esistenza di un dio chiamato rigore.

Troppo flebile è stata la svolta programmatica seguita alla scalata di Hollande all’Eliseo per consentirgli di resistere alle spinte populiste che cavalcano le pulsioni più regressive come risposta all’emergenza sociale. In molti paesi europei, i partiti riformisti, percepiti come non estranei alla crisi e comunque come registi di una risposta del tutto interna ai paradigmi del liberismo, si sono dileguati (il Pasok) o versano in condizioni pietose (il Psoe). Paiono vittime di quella «socialdemocrazia neoliberista geneticamente modificata», come la chiama Tsipras, che, sulla scia di Blair, ha preparato negli anni la sciagura delle idealità della sinistra di governo.

In Italia, nel 2013, la coalizione «neosocialdemocratica» di Pd e Sel ha pagato le manovre dei poteri forti (che però fanno il loro mestiere: troncare ogni minima traccia di una riaffiorante autonomia politica del lavoro, al costo della crisi di sistema) e le sue gravi incertezze nel proporsi come un credibile e combattivo rappresentante di una parte di società, quella che sfida gli imperativi dell’austerità, dell’esclusione, della precarietà. E per questo la crisi ha avuto un effetto di stabilizzazione moderata, con l’irruzione catastrofica di eterogenei volti dell’antipolitica (Grillo, Salvini, Berlusconi, Renzi).

In Grecia la dialettica politica non è stata anestetizzata, in nome di una religione della stabilità che consigliava la sospensione del voto, e quindi non ha prodotto una distruttiva contesa tra dentro (il sistema) e fuori (la società civile).

Ciò ha determinato una radicalizzazione della conflittualità politica e sociale che è rimasta però tutta quanta saldamente collocata entro l’asse destra-sinistra. Questa polarizzazione, forte ma costruttiva, in Italia è stata impedita da una metafisica della responsabilità nazionale in condizioni di emergenza che, per il dopo Berlusconi, ha regalato le splendide figure di Grillo e Renzi. L’Italia migliore in politica appartiene alla storia, il presente è solo decadenza.

E a questa storia che resiste alla decadenza e all’oblio Tsipras mostra di guardare con rispetto. «Ricordo – anche se ero piccolo – il Pci di Enrico Berlinguer, ricordo in modo molto vivo il giorno della sua morte. E non posso non serbare nella memoria l’immagine del segretario del partito eurocomunista greco, Leonidas Kirkos, il quale, alla vigilia delle elezioni europee del 1984, ha suonato la fisarmonica, dal palco del suo comizio di chiusura, proprio in memoria del compagno Berlinguer. È stata la manifestazione più grande che il partito abbia fatto ad Atene, in piazza della Costituzione».

Una vitale traccia di comunismo italiano affiora lungo il cammino che accompagna Tsipras al trionfo grazie alla capacità di mediare radicalismo (critica del distruttivo capitalismo postmoderno e definizione di «forze sociali» plurali, nella consapevolezza però che «senza operai non si potrà più parlare di socialismo») e proposta di governo (allo «scontro frontale» con le potenze del capitale, bisogna sempre aggiungere il «continuo alternarsi di scontri e compromessi»). Da qui l’enorme distanza evidenziata rispetto al Pd di Renzi che, nella suo scambio indecente tra riforme antioperaie e flessibilità nei conti, «taglia ogni rapporto con le radici della sinistra e con la sua ricchezza ideologica».

Con il suo invito a condurre «un’opposizione radicale a Renzi», Tsipras presenta la sinistra come «una forza della coscienza» che ha un futuro solo se nella contestazione del presente recupera le grande idealità politiche del suo passato.

Le tradizioni sono però anime morte se i suoi eredi, quelli che in Italia hanno frequentato lo stesso romanzo della formazione politica letto con profitto da Tsipras, firmano la resa ad un’antipolitica alla fiorentina che usa il chiacchiericcio e l’accordo più spregiudicato come maschera degli appetiti di magiche cricche del potere.