Il 2017 sarà l’anno della normalizzazione delle politiche monetarie e del ritorno ai consueti meccanismi di mercato? Un paio di fattori, spesso enfatizzati, sembrerebbero confermare questa ipotesi: la Fed alla fine ha alzato i tassi d’interesse e promette di rifarlo ripetutamente anche quest’anno e, come sottolinea l’Economist, nei paesi ricchi, in particolare in Germania, sta tornando l’inflazione. L’Economist spiega l’aumento dei prezzi col rialzo del prezzo dell’energia, la stabilizzazione di alcuni emergenti, la riduzione della disoccupazione, fattori in una certa misura provvisori che non risolvono il dilemma della pressione generale sui prezzi verificatosi in questa fase. Raramente, invece, si riflette sulle controindicazioni sistemiche che potrebbero verificarsi con la fine dell’allentamento monetario e che di fatto ne determinano quantomeno un ritmo lento e non sempre lineare a dispetto dei reiterati annunci sulla sua fine.

Recentemente Tommaso Monacelli su lavoce.info ha sostenuto che nel 2014 le banche europee detenevano attività verso debitori asiatici (cioè altre banche o imprese) per 647 miliardi di dollari, mentre le banche americane per soli 571 miliardi. Solitamente, dunque, l’attività in dollari delle banche europee è superiore a quella statunitense, più in generale l’84% del credito bancario denominato in dollari nel mondo è stato fornito da istituzioni finanziarie non americane.

In definitiva Monacelli sottolinea come «l’inversione di rotta della politica monetaria della Fed è in realtà un’arma carica per tutti quegli operatori finanziari e imprese che si sono indebitate in dollari negli ultimi 7-10 anni». Quando le autorità monetarie statunitensi pensano di aumentare i tassi d’interesse secondo il canale tradizionale si dovrebbe determinare un deprezzamento delle altre valute e dunque un aumento delle esportazioni degli altri paesi verso gli Usa e in qualche misura persino della loro domanda aggregata.

Esiste tuttavia un canale finanziario che spinge in direzione opposta, poiché le imprese degli altri paesi sono indebitate in dollari, ma hanno attività denominate nelle proprie monete, e la svalutazione di quest’ultime peggiora le condizioni finanziarie, finendo per spingere verso l’alto il costo del credito alle aziende. Quando la Fed aumenta il costo del denaro si afferma un deflusso di capitali dai paesi indebitati in dollari. È ciò che in questo periodo è accaduto in Cina, dove il deprezzamento della valuta veniva compensato dal peggioramento delle condizioni finanziarie. L’integrazione finanziaria, dunque, lascia poco spazio all’autonomia nazionale della politica monetaria e mantiene un ruolo centrale alla principale moneta di riserva a livello globale. Perciò le scelte della Fed non possono rispecchiare unicamente l’andamento economico interno, ma devono considerare le ripercussioni a livello internazionale che a loro volta potrebbero retroagire sul piano interno.

Detto ciò, la spinta verso un abbandono della moneta espansiva è determinata non tanto dalla ritrovata salute economica, quanto dalla sua inefficacia nel favorire la ripresa. Non è un caso che ai segni di deglobalizzazione corrispondano ambizioni a un recupero d’intervento su scala nazionale.

Non vanno sottovalutati gli effetti in campo economico provenienti dal cambio politico nel mondo anglosassone (dove le banche centrali tanto sono state protagoniste). L’ambizione è quella di un ritrovato interventismo statale in campo fiscale (avvantaggiando ricchi e imprese): in spese infrastrutturali, in deregolamentazione finanziaria con il pretesto di favorire il credito alle attività reali, insomma un progetto che nel suo tentativo di rimettere l’accento contraddittoriamente sul piano interno segna il passaggio di testimone dalle politiche sbilanciate sugli oracoli delle banche centrali.

Dalla politica monetaria alla politica tout court.