A Filadelfia ci doveva essere la convention della «forza tranquilla» contro l’isteria. Dell’inclusione contro gli appelli al linciaggio sentiti a Cleveland. Dell’unità contro la divisione. La convention dell’esperienza contro il dilettantismo. Delle proposte costruttive contro le fantasie. Di una politica estera tradizionale contro il ritorno a un’improbabile Fortezza America. Insomma, doveva essere la convention della seria, credibile, eleggibile Hillary Clinton contro quella dell’inaffidabile, razzista, xenofobo Donald Trump.

E poi sono arrivate le email. Le dimissioni della presidente del Comitato nazionale democratico Debbie Wasserman Schultz. Il sospetto che le primarie siano state manipolate a danno di Bernie Sanders. La convention di Filadelfia inizia male e l’incoronazione di Hillary a fine settimana sarà una cerimonia triste.

Quello che è importante capire è che non siamo di fronte a errori, beghe di corridoio o complotti russi per danneggiare la candidata democratica: siamo di fronte alla crisi complessiva di un sistema politico bipartitico. I democratici erano stati più abili dei repubblicani, oltre che più fortunati, presentando alle primarie un candidato unico (Clinton) invece che una dozzina di nanetti, facile preda dello squalo venuto dal nulla (Trump). Ma il partito democratico non era più in salute di quello repubblicano, malgrado l’immenso carisma e la grande abilità di Obama: se ne è accorto perfino il New York Times, che lo ha definito «un partito in cerca di uno scopo».

Bernie Sanders offriva uno scopo al partito: rappresentare il 99% degli americani, mettere fine al dominio del denaro sulla politica; Hillary Clinton può darsi un programma del genere? Qualunque cosa ci sia scritta nella piattaforma che uscirà dalla convention di Filadelfia, Hillary non è un candidato credibile su questo piano. Lei stava alla Casa Bianca con il marito Bill quando venivano attuate la deregulation bancaria, la creazione dei mutui subprime all’origine della crisi del 2008, le leggi che hanno portato in carcere tre milioni di americani: tutte scelte nel lungo periodo disastrose, tutte scelte avvenute fra il 1993 e il 2000. Gli americani non si fidano di lei.

È un sistema oligarchico quello che – non da oggi – governa gli Stati uniti ed è un miliardario che ne ha beneficiato spudoratamente, un demagogo truffaldino quello che si fa paladino della rivolta: Hillary, nel ruolo di cauto riformatore del sistema (quindi di suo difensore) ha una posizione assai scomoda. Talmente scomoda che il sostegno dei professionisti della California, dell’Oregon, di New York e dell’Illinois, delle donne non sposate, degli ispanici, degli afroamericani, potrebbe non essere sufficiente.

L’ipotesi di costringere la sinistra, quest’anno i sostenitori di Sanders, a votare per lei agitando lo spauracchio dell’avversario, quest’anno Trump, è una ricetta consolidata: l’apparato del partito agita lo spettro della sconfitta del 2000, quando la candidatura di Ralph Nader con i versi non superò il 3% dei voti, un risultato più che sufficiente, in un sistema brutalmente bipartitico, per consegnare la Casa Bianca a George W. Bush, con tutte le catastrofi che ne seguirono.

L’argomento farà certamente presa su molti elettori democratici, ma non su tutti: Al Gore era noioso ma non detestato. Era troppo intellettuale per l’America profonda ma non veniva considerato un manipolatore o un disonesto. Con la sua reputazione di donna cinica e assetata di potere, Hillary si porta dietro un pesante fardello. Anche nella migliore delle ipotesi, quella di una campagna elettorale senza altri colpi di scena e di una vittoria a novembre, la sua presidenza si aprirebbe sotto il segno di un sistema politico che non regge più.