Dilma Rousseff nella bufera. La Corte dei conti federale (Tcu) ha respinto all’unanimità il bilancio sulle spese di governo per il periodo 2014 per presunte irregolarità. Il parere non è vincolante, la decisione finale spetta al parlamento brasiliano, ma per le destre e i loro padrini economici si tratta del primo passo verso l’impeachment. Se, infatti, anche il Congresso considererà irregolari i conti pubblici, la presidente potrà essere accusata di «delitto di responsabilità», una delle imputazioni previste per l’apertura di un procedimento politico per destituirla. Alla Camera dei deputati esiste già una decina di richieste di impeachment presentate dall’opposizione in questi mesi.

Le destre hanno anche presentato una denuncia per presunte irregolarità nei conti della campagna presidenziale del 2014. E il Tribunale supremo elettorale (Tse), un ramo della giustizia che persegue i reati elettorali, ha aperto un’inchiesta. Teoricamente, il Tse ha la facoltà di destituire dall’incarico sia la presidente che il suo vice Michel Temer, del Pmdb. Intanto, segue il suo corso il gigantesco scandalo per la corruzione a Petrobras, l’impresa petrolifera di stato accusata di aver gestito un giro di tangenti ai politici per oltre 2 miliardi di dollari. Anche il governativo Partito dei lavoratori (Pt) è stato pesantemente coinvolto. I giudici hanno inquisito la cerchia più vicina alla presidente, e cercato di colpirla in prima persona: fin’ora senza esito. In compenso, la Corte suprema ha autorizzato la polizia a interrogare il suo predecessore Lula da Silva, che si ricandida per un nuovo mandato.

Ora, il governo ha annunciato che ricorrerà alla Corte suprema contro il verdetto del Tcu. Ha anche messo in causa l’imparzialità del giudizio poiché fra gli otto magistrati giudicanti vi è Augusto Nardes, che ha fatto carriera durante la dittatura brasiliana e si è più volte espresso pubblicamente contro la presidente. I circoli militari eredi della dittatura si sono fatti vedere in piazza e guidano le manifestazioni al grido di «Fuori Dilma» e chiedono esplicitamente il ritorno alla dittatura.

Allo stesso tempo, mentre Lula cerca di rianimare un Pt messo alle corde dalle sue stesse contraddizioni, la piazza che ha votato Dilma non vuole assistere impassibile alle misure di austerità proposte di recente. Pochi giorni fa, Rousseff ha formato un nuovo gabinetto per dare zuccherini agli alleati più infidi in cambio di un appoggio più stabile in parlamento. E ha fatto capire che le misure proposte nel pacchetto austerità le sono state praticamente imposte. Ha dato un segnale riducendo, oltre al numero dei ministeri, anche il suo stipendio (del 10%). E alcuni passi avanti in risposta alle promesse elettorali rivolte alla sinistra e alla base, sono stati fatti. Un forte segnale contro la corruzione è stato dato con la legge che impedisce alle grandi imprese di finanziare la campagna elettorale dei candidati.

Oltre 200 economisti sono tuttavia insorti contro i tagli alla spesa pubblica imposti a un Brasile in recessione dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale, e accolte con zelo dalle destre. Anche i sindacati di sinistra sono scesi in piazza: ma sempre con la consapevolezza della partita che si sta giocando in tutta l’America latina, e che vede come bersagli principali il Brasile e l’Argentina – per un verso – e il Venezuela per l’altro. Alla riunione annuale dell’Fmi e della Banca mondiale, che si è svolta in Perù, le grandi istituzioni internazionali hanno bocciato l’economia brasiliana, in sofferenza per la caduta del prezzo del petrolio e avviata verso un segno meno del 3% nella crescita del Pil. Da gennaio, da quando è stata rieletta per un secondo mandato con uno stretto margine di vantaggio, i «mercati» hanno subito indicato la debolezza di Rousseff e l’instabilità politica (da loro stessi provocata) come il principale fattore di freno alla crescita del gigante latinoamericano.

Capita che lo stesso Fmi si presenti in veste benevola con quei governi che cercano di contenere la rabbia sociale concedendo qualche briciola di welfare per creare nuove fasce di consumatori. E, in questa veste, la direttora dell’Fmi, Cristine Lagarde si è presentata in qualche convegno in Centroamerica. Ma ora la parola passa prioritariamente alla gigantesca ragnatela neoliberista realizzata dagli Usa con il Tpp, il grande accordo commerciale del Pacifico che mira a disinnescare le potenzialità delle economie emergenti come il Brasile e a isolare i due grandi – Argentina e Brasile – dalle nuove alleanze sud-sud d’impronta più solidale.

La crisi del Brasile fa da spettro anche all’Argentina in piena campagna elettorale in vista delle presidenziali del 25 ottobre. Il 50% delle esportazioni industriali argentine è diretto al Brasile, suo principale partner. In Argentina c’è molta preoccupazione per le sorti economiche del Brasile e questo può avere il suo peso nei progetti di Daniel Scioli, candidato del Frente Amplio, ma ben più moderato dell’attuale presidente Cristina Kirchner. E poi ci sono le elezioni del 6 dicembre in Venezuela, grande riserva petrolifera che vuole costruire il socialismo. L’eccezionale sentenza della Corte dei conti brasiliana (la prima da 80 anni) suona anche come monito.