Un esito scontato quello del referendum consultivo sull’Esequibo: la quasi totalità dei 10milioni e mezzo di elettori venezuelani che domenica si sono recati alle urne rivuole indietro la regione, più grande della Grecia, sottratta al loro paese dall’Impero britannico nel 1899. Il sì ai cinque quesiti referendari ha ricevuto percentuali bulgare: dal 98,1% di voti a favore di una risoluzione della controversia unicamente sulla base dell’Accordo di Ginevra del 1966 (quando appunto il Regno unito si era impegnato con il Venezuela a trovare una soluzione concordata) al 95,4% di elettori che concordano nel respingere la giurisdizione sul caso da parte della Corte Internazionale di giustizia, mentre solo il 4,06% ha detto no all’annessione dell’Esequibo al proprio paese.

Se in tanti si sono espressi a favore della rivendicazione del Venezuela rispetto ai suoi diritti sul territorio in disputa, un’azione di guerra viene però esclusa da tutti gli osservatori. Non la voleva di sicuro Hugo Chávez, che nel 2004 – prima però che il colosso statunitense ExxonMobil allungasse i suoi artigli sui vasti giacimenti di petrolio scoperti nelle aree costiere contese – aveva dichiarato che il Venezuela non si sarebbe opposto ad alcun progetto della Guyana a beneficio del suo popolo.

Non ci pensa, in realtà, neanche il governo Maduro, il quale ha dichiarato che il referendum sarebbe servito piuttosto a costringere il presidente guyanese Irfaan Ali – il quale ha sempre assicurato che la Guyana non cederà un solo centimetro di territorio, puntando anzi a stabilire nella regione basi militari con l’appoggio degli Usa – a sedersi al tavolo delle trattative: il ritorno «ai meccanismi di negoziazione pacifica e diplomatica – ha detto Maduro – è una delle aspirazioni massime che abbiamo su questo tema».

E se non è certo priva di senso la provocazione lanciata dal geografo guyanese Temitope Oyedotun – «Perché non domandare ai cittadini dell’Esequibo come e da chi vorrebbero essere governati?» -, di sicuro tra i due litiganti non godono i popoli indigeni, la foresta e gli ecosistemi dell’Esequibo. Cioè di un territorio di circa 160mila chilometri quadrati occupati per l’85% da una foresta impenetrabile e quasi intatta, ricchissimo non solo di petrolio ma anche di oro, diamanti, bauxite, manganese e uranio. E di acqua, grazie a un’estesa rete di fiumi e cascate, tra cui le spettacolari cascate Kaieteur, cinque volte più alte di quelle del Niagara.

Proprio l’oro – e più in generale tutta l’attività mineraria, sia legale che illegale – è la principale minaccia alla straordinaria biodiversità di una regione in cui vivono 10mila specie di piante, 900 di uccelli, 300 di pesci e 60 di anfibi, provocando dal 2000 al 2022 una perdita di 31mila ettari di foresta. L’impatto è devastante tanto sull’ambiente – avvelenato dalle 29 tonnellate di mercurio utilizzate per estrarre 19 tonnellate di oro ogni anno – quanto sugli oltre 15mila indigeni che vivono in stato di povertà e di abbandono, spesso esposti alle bande criminali che controllano le miniere illegali.

«L’interesse della Guyana è strettamente economico», ha denunciato l’antropologo Ronny Velásquez, docente della Universidad Central de Venezuela: «non c’è alcuna attenzione nei confronti delle comunità indigene della regione», di etnia arawako, akawaio, patamona, waiwai, makushi, kariña, wapishana, che «mantengono una relazione armoniosa con la natura» prendendosi cura dei boschi e dei fiumi». «È dagli anni ’90 – dice – che percorro questa regione abbandonata tanto dalla Guyana quanto dal Venezuela. E una delle conseguenze di questo abbandono è la presenza della ExxonMobil».