Torna il Teatro Povero tra le torri medievali di questo angolo meraviglioso della Val d’Orcia. E se i primi tempi poteva sembrare quasi una «curiosità» da andare a osservare, adesso è una sorta di passaggio obbligato, necessario per capire e verificare i legami del teatro (forse di tutto il teatro) con il luogo e le persone da cui nasce e a cui si rivolge. Alla cinquantesima edizione la comunità di Monticchiello (niente di idillico, origine contadina ma impegnata e attiva in tutto il senese) sembra quasi voler gettare impietosamente la maschera: non perché, da sempre, questa manifestazione non abbia usato la propria storia ed esperienza per cercar di capire e «interpretare» il mondo, ma questa volta c’è una sorta di «autobiografia» artistica ed esistenziale davvero diretta, e immediatamente relativa a quello cui stiamo assistendo.

Notte d’attesa (in scena alle 21,30 tutte le sere tranne i lunedì fino al 15 agosto) è firmata per il testo fitto e per la regia da Andrea Cresti. Ma stavolta è davvero una sorta di radiografia interiore, sincera fin quasi alla crudeltà, su come nacque il teatro tra quelle mura, che senso ha avuto, e quindi quale potrà avere, nel deterioramento generalizzato del paesaggio esterno, dove alle difficoltà economiche si aggiungono paure generalizzate. Quella «notte d’attesa» sembra partire davvero da una situazione di crisi e indeterminatezza che certo rappresenta l’oggi, bombardato di notizie terrificanti, bisogni non appagati, crisi economica, mancanza di prospettive.                    

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Ma quella «eterna» condizione si consuma dentro una scenografia precisa, che rende questa volta l’apporto visivo di Daniela Capaccioli fondamentale, per la bellezza dell’effetto e per offrire la chiave di lettura. Gli abitanti costretti alle notizie peggiori sugli andamenti di borsa e i disastri epidemici, stanno dentro a delle mura turrite, che ad un tratto si alzeranno a chiuderli dentro completamente. E il fondale, dietro al quale si intravedono luci e sagome, somiglia tanto a un graticcio teatrale, fatto di cantinelle.
Perché la tentazione, evidente, può essere quella di rinchiudersi in teatro, e porre bastioni o ponti levatoi verso il resto del mondo. E la voglia e la scelta coraggiosa di passare alla rappresentazione nasce proprio dalle risposte più dure e meno condiscendenti a quel malessere.
Chi non ci sta a rimanere passivo, comincia a usare la memoria, e a trovare somiglianze e paralleli con un altro momento critico di quella comunità contadina: la lotta al latifondo e l’esperienza della mezzadria, destinata a consumarsi anch’essa. E quegli squarci di ricordi di più di mezzo secolo fa sono già delle fulminazioni che lanciano il teatro come un’astronave nei centri nervosi dell’emozione.

Fanno tornare alla mente la Monticchiello dei primi anni, con personalità come Rino Grappi e Alpo Mangiavacchi a raccontarci le storie meravigliose di quel crudele tempo antico. Oggi nuove generazioni (anche ereditarie) si muovono sulla scena del Teatro Povero, ed è una ricchezza significativa. Perché questa nuova leva di attori e personaggi ci mostra che nel profondo è ben necessario il teatro di Monticchiello, l’autodramma come lo definì con snobistico neologismo Giorgio Strehler quando gli raccontarono di quella esperienza nata tra le crete senesi.

Alla fine i cittadini in crisi, dopo i tormenti, e perfino la teatrale apparizione di personaggi in costumi medievali, riprendono i loro lamenti per la situazione rimasta, oggi come ieri, catastrofica. Chi si oppone, chi sembra arrendersi, chi si illude: una ragazza continua a cercare di raggiungere via cellulare l’ufficio del personale cui ha mandato inutilmente il proprio curriculum. Ma l’uscita di scena di tutto il paese ribalta in speranza la propria specificità. Se mura e torrioni prima si erano chiusi attorno ai problemi e al teatro come pareti di un acquario da osservare, ora crollano e si aprono al mondo: il teatro non è detto sia destinato a essere solo spettacolo. E non a caso, in mezzo agli attori, si vedono bambini e ragazzi che danno una speranza al domani. Senza retorica e senza didascaliche illusioni, la fatica quotidiana e sociale resterà pure, ma aprirsi all’esterno e al futuro è già una scelta positiva, anche se la tempesta mediatica racconta un mondo sempre più sbagliato. Aspetteremo altre uscite del Teatro di Monticchiello per captare la sua vivibilità.