Un uomo lancia una moneta in un pozzo e mentre aspetta che cada in fondo, rivive i suoi giorni, la gente che gli è stata accanto, il tempo che gli è toccato in sorte: è una delle ultime immagini del romanzo di Juan Villoro Il testimone (Gran Vía, pp. 502, euro 20,00), giudicato uno dei più interessanti esiti della narrativa latinoamericana del nuovo secolo, opera di uno scrittore messicano che è una voce ormai imprescindibile, e che grazie al lavoro di Maria Cristina Secci, la sua notevole traduttrice, comincia a venire conosciuto anche da noi.

Come avviene spesso nella tradizione messicana, Villoro è un affabile poligrafo, autore di romanzi, racconti, libri per ragazzi, saggi e cronache tutti di grande qualità, il cui progetto di scrittura, tra le più solide e riconoscibili del panorama attuale in lingua spagnola, mostra una certa consonanza di ispirazione, e la reiterazione di temi e figure. Se, per esempio, si confrontano lo stile delle cronache e quello dei romanzi, si vede come dalla scrittura giornalistica Villoro apprenda la concisione nel disegno dei personaggi, il gusto per la frase accurata, a volte perfino aforistica, la capacità di organizzare la macchina narrativa in unità precise, qualità che gli permettono di costruire romanzi rigorosi, dall’architettura intrigante e complessa, tra i quali Il testimone è certamente il frutto più ambizioso.

Al centro della storia sta il personaggio di Julio Valdivieso, uomo dubbioso e insicuro, come altri protagonisti dei romanzi di Villoro, che in continuazione si pone domande, senza osare cercare risposte definitive. Professore di letteratura con «una faccia comune» e un nome che gli viene «non da un martire ma da qualcuno che guardava il mondo come se fosse di troppo», vive in Europa da ventiquattro anni per studiare «autori capricciosi, minori, che andavano a braccetto con il mistero»; e considera la sua vita come un «possesso per perdita»: l’ha costruita, infatti, a partire da un grande amore, perduto per caso nell’appuntamento cruciale della sua vita. Grazie a queste sue peculiarità, Julio Valdivieso può trasformarsi nel «testimone perfetto», capace di ricostruire i contrattempi della sua storia personale, e comprendere quelli di un intero paese. Ma l’operazione non viene portata a termine attraverso solenni riflessioni sull’identità; piuttosto, grazie a uno sguardo da entomologo, che si fissa sui dettagli, un’attenzione imparata «in un corso dove le piccolezze, gli oggetti secondari e collaterali, si discutevano con la certezza di ricomporre un ordine, il rovescio di un arazzo».

Julio Valdivieso è al centro della narrazione, ma da questo centro si dirama una trama che attraversa spazi distanti, la Città del Messico che è scenario preferito della narrativa di Villoro, l’Europa lasciata alla spalle, e un Messico rurale che riguarda l’origine della famiglia del protagonista, una famiglia allargata, complicata, piena di intrecci e di strani personaggi, modello di quella classe media senza stabili radici nella società messicana, e in cui i personaggi femminili assumono un ruolo centrale.

Molteplici le tensioni che si accumulano: quelle tra l’infanzia e una maturità incerta, tra le contraddizioni della storia e un presente senza una chiara direzione, tra l’America e l’Europa, tra l’affascinante caos metropolitano e la seduzione della campagna, e tra le quattro donne che si collegano ai diversi momenti della vita del protagonista: Nieves, il primo amore perduto, la cilena Olga Rojas, compagna di studi universitari e lotte politiche, Paola, la sposa italiana che traduce autori messicani e cerca l’esotismo a tutti i costi, e alla fine Ignacia, che lo riporta alla terra delle radici. Hanno caratteristiche molto diverse, ma tutte si confrontano col protagonista «per differenza», non si adattano alle sue stranezze, ma sostengono con lui una lotta constante, che costituisce uno dei nuclei generatori del romanzo.
La relazione tra queste donne e le diverse stagioni della vita del protagonista porta con sé una riflessione sulla storia recente del paese; e Villoro, come molti scrittori messicani, non si sottrare, come toccasse anche a lui, come a Julio Valdivieso, «montare l’archivio della tribù».
Sceglie tuttavia di adottare il punto di vista delle domestiche, che vivono nell’ombra, e questa visione della storia in minore, permette al passato di contaminare il presente con una certa ironia, che si accompagna all’ipoteca gettata sull’oggi, in un movimento intertestuale che attraversa tutto il romanzo. All’inizio, infatti, il protagonista decide di tornare in Messico per collaborare con una fondazione consacrata alla memoria del poeta Ramón López Velarde, uno dei miti letterari messicani, per vedersi poi coinvolto nella produzione di una serie televisiva sulla guerra cristera, l’ultimo atto di una guerra civile che era nata come una rivoluzione.

Qui al romanzo si intreccia da un lato la storia e dall’altro la religione, passando per improbabili riletture mediatiche – una telenovela sui cristeros e la beatificazione del poeta nazionale – ma anche per una riflessione personale su quel bagno di sangue le cui origini sono appunto religiose, capace di mettere in discussione la passività del testimone autoriale di fronte alla sua storia e a quella del paese, in una inusuale e affascinante mescolanza.
La relazione tra storia, letteratura e religione moltiplica il livello dei giochi intertestuali, senza mai scadere in criptiche allusioni, al punto che citazioni di intere poesie di López Velarde possono influire direttamente sulle azioni dei personaggi o che i giovani Julio e Nieves scelgono per il loro appuntamento fatale la piazza di Mixcoac che Octavio Paz cita in una sua poesia. E quando il piano fallisce, per una svista topografica, Julio si definirà «un arcipelago di solitudini», citando un gruppo di poeti messicani degli anni trenta. Ancora, nel romanzo si affacciano forme e procedimenti del noir, grazie alle quali assistiamo alla brusca intrusione della violenta realtà del narcotraffico nella vita dei personaggi, che si vedono costretti a seguire rotte impreviste.

Mentre ci si avvicina al finale, il protagonista va trasformandosi: non smette di farsi domande e di avere dubbi, ma la sua condizione di testimone acquista una dimensione nuova, perché l’accumulo dei ricordi e delle contingenze lo spingono, quasi contro la sua volontà, a prendere posizione, ad assumere decisioni che gli aprono un futuro al di là dello spazio romanzesco, un futuro lasciato alla collaborazione immaginativa del lettore, secondo la lezione più feconda dell’amato Cortázar. La svolta nella trama viene segnata dalla presenza di un oggetto ricorrente nelle narrazioni di Villoro: una moneta, che i personaggi femminili affidano a Julio Valdivieso.

Ormai perduta, Nieves «tira una moneta nel pozzo, con la mano sinistra», per augurare al suo uomo un futuro migliore, e sarà una moneta stretta forte nella mano a salvargli la vita, quando quasi affoga in uno stagno. Non è solo l’azzardo a venire evocato, il caso che segna ogni vita umana: attraverso un altro sottile gioco intertestuale, infatti, vengono ricordate le molte monete sparse nei racconti e nelle poesie di Borges, che non rimandano al caso, ma al destino, poiché le loro due facce rivelano la duplicità del possibile, sempre aperto davanti a un futuro che si rivelerà più ricco del passato con le sue macerie, e che – come afferma Julio Valdivieso – «sa di terra».