A via Ferraz, Madrid, sede storica del Psoe, oramai è caos. Al culmine di uno scontro interno senza precedenti, mercoledì sera si sono dimessi 17 dei 38 membri dell’esecutivo socialista. È la risposta alla bomba lanciata dal segretario Pedro Sánchez subito dopo la notizia dei (pessimi) risultati delle elezioni in Galizia ed Euskadi. Per costringere i dissidenti a lasciargli mano libera, Sánchez aveva convocato per domani un Comitato federale. All’ordine del giorno: primarie per l’elezione di un nuovo segretario il 23 ottobre e un congresso straordinario a dicembre. Il tutto mentre, in assenza di un governo, l’1 novembre scade l’attuale parlamento eletto a giugno, e le elezioni sarebbero per il giorno di Natale (o la domenica prima, previa leggina ad hoc).

L’obiettivo di Sánchez è stanare gli avversari, riprendere il controllo del partito e formare un governo a qualunque costo – la sua unica speranza di sopravvivenza politica.

Ma la mossa è andata storta, e mercoledì mattina Felipe González, ex premier socialista, ha dato il via all’armageddon: in un’intervista alla catena Ser (gruppo Prisa, come el País, potente alleato dei critici di Sánchez) lo ha attaccato frontalmente, chiamandolo bugiardo. Una violenza inaudita, in cui il grande vecchio – ormai considerato esponente dell’establishment più conservatore – con un lapsus è arrivato a dire che «nonostante quello che abbiamo fatto nel paese basco», mai i risultati erano stati così negativi. Il riferimento è alle squadracce parapoliziesche dei Gal, della guerra sporca contro l’Eta per cui González perse il governo nel 1996. Non aveva tutti i torti Pablo Iglesias quando aveva avvertito Sánchez (provocando indignate reazioni socialiste) di stare attento al presidente «della calce viva».

L’idea degli ammutinati era costringere il segretario ad andarsene (e impedire il Comitato federale). Loro contabilizzano anche i 3 posti già vacanti per raggiungere la metà più uno dei dimissionari, ma quelli di Sánchez interpretano lo statuto, vago, diversamente. E comunque le regole prevedono la convocazione di un congresso, quello che propone Sánchez. Sono volati stracci, con minacce di arrivare in tribunale, e reciproche accuse di illegittimità.

Sánchez ha tirato dritto: ieri con quello che resta dell’esecutivo socialista ha deciso di confermare il comitato federale di domani con la proposta di primarie e congresso (ma anticipato a novembre). Spera che la militanza lo blindi: Sánchez è il primo segretario socialista a essere stato eletto dai militanti. La sua ambizione – stavolta è disposto a trovare un accordo con Podemos e persino coi nazionalisti per arrivare al governo – si scontra con le accuse dei suoi avversari di aver preso in ostaggio il partito.

Il segretario non molla e sfida la sua principale avversaria, la presidente andalusa Susana Díaz, a dire se vuole l’astensione del partito, lasciando che Rajoy formi il governo, o il no al leader conservatore. Come se il problema socialista fosse solo questo. Intanto lei ieri sera ha detto che vuole un congresso «dopo la formazione di un governo».

Se il Psoe finisce per astenersi, gli ammutinati non ne usciranno vivi. Ma se si dovesse imporre Sánchez, le ferite aperte non si chiuderanno facilmente. Il Partido popular si frega le mani: con elezioni anticipate o governo Rajoy, loro ci guadagneranno in ogni caso.