Manel ha un megafono in mano e gli occhi scuri fiammeggianti incastonati in un hijab azzurro stretto intorno al volto. Quando arriva, alla testa di uno spezzone che scandisce forte slogan e parole, piazza Santi Apostoli ha un fremito.

Sotto al palco della prima manifestazione nazionale dei musulmani d’Italia, contro il terrorismo e in solidarietà con le famiglie delle vittime di Parigi, non si percepiscono le parole e a causa dei tanti ombrelli non si vede bene chi sta arrivando. Sul palco si sta leggendo il messaggio di saluto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «È un grande onore che il presidente della Repubblica ci abbia voluto inviare questo messaggio», sono le parole pacate e commosse dell’oratrice. Poi sarà letto anche quello della presidente della Camera Laura Boldrini.

Ma i cronisti e le telecamere sono attirati indietro, a vedere cosa succede. Nessun agguato, è soltanto l’arrivo di un piccolo corteo rumoroso di giovani musulmani: vengono da Centocelle, da Tor Pignattara, come si legge sui loro striscioni, ma anche da Frosinone come Manel e la sorella Zeineb che le sta al fianco, anche lei con la testa velata come le altre ragazze che le attorniano.

Manel e Zeineb, di origini tunisine, studiano biologia all’università di Tor Vergata. Zeineb è di due anni più piccola e si limita ad «alzare il coro»: «No al terrorismo, noi ci siamo», grida seguita anche da voci maschili come quelle di Abdel e Kais, che hanno moglie e figli.

Manel invece è la voce che spiega, e lo fa quasi rotta dal pianto, senza pause. Il suo è un racconto di sé, il racconto di una ragazza della cosiddetta Generazione Bataclan così diversa da Hasna, la coetanea che forse si è fatta esplodere o forse è stata uccisa dalle forze speciali nel covo di Saint Denis e di cui ormai si sa tutto, incluso le foto nude nella vasca da bagno.

«Io porto il velo sì, sono musulmana, lo faccio per libera scelta – dice quasi fosse un rap – faccio l’università, prendo autobus, treni, metro e tutti mi guardano e trattengono il fiato come se stessi per farmi esplodere, allora io sorrido, rido e loro respirano. No, io non sono dell’Isis, come si fa a essere dell’Isis, è una domanda stupida, soltanto se hai il cervello marcio, se ti hanno fatto il lavaggio del cervello perché sei stupido sei dell’Isis e ti senti grande ma sei solo uno stupido e stai sicuro che non ci vai in Paradiso tu, io sono italiana, amo l’Italia, mi piace la pizza, se l’Isis vuole colpire qualcuno venga a colpire me, sono pronta, io difendo l’Italia e sono pronta a morire per questo, sono musulmana e italiana, vengano da me, e non è che non sono solidale con Siria o Mali, è che hanno colpito qui, vicino , qui, vogliono rinchiuderci in casa e io dico che questo è il mio paese e qui rimango, ma la gente deve capire, non deve guardarmi con sospetto, quando siamo uniti e in pace respiro, se vedo qualcuno sospetto chiamo la polizia io, non sono una bomba, sorrido sul bus e loro respirano». Manel, 25 anni.

Mimoun el Hachim, nato a Melilla, Marocco, ne dimostra quasi il doppio, di anni, sta per avere il terzo figlio, sventola sopra lo zuccotto bianco una bandiera blu dell’Europa, al collo una kefia rossa che, spiega, ha preso alla Mecca durante il suo haji, il pellegrinaggio che ogni musulmano potendo deve fare una volta nella vita. È l’imam di Terni, guida l’unica moschea in Italia dentro un carcere: il penitenziario umbro del Sabbione. «In carcere aiuto i musulmani ma anche gli altri, siamo tutti figli di Abramo – dice – e questi maledetti non chiamateli jihadisti, sono solo assassini criminali, non sanno neanche di che colore è il Corano, sono solo degli ignoranti». Dalla sua visuale «in Italia i terroristi non hanno spazio, noi non stiamo mica dormendo, non lasciamo spazio a nessuna infiltrazione, ogni centro culturale ha rapporti stretti con le autorità, appena vediamo qualcuno anche solo un po’ sospetto, lo segnaliamo».

La comunità del Bangladesh a Roma è venuta in forze, con volantini bilingue e cartelli in inglese in cui si chiede alla comunità internazionale una risposta contro «la barbarie» in Siria come a Parigi, in Iraq, in Birmania e in Bangladesh. Quale risposta comune, la guerra? «No – risponde il portavoce Shah Mohamed – chi uccide è un barbaro, sono tutti responsabili, chi vende le armi? richiamiamo tutti i governi alle loro responsabilità».

I musulmani di Tor Pignattara, popoloso quartiere romano dove si concentrano quattro moschee con circa 3mila fedeli, non hanno portato le loro donne. «Un po’ perché piove, ma anche per paura», ammette Mohamed. Ma ci sono anche donne sole, come Hayat, badante, con la figlia, un’amica e la figlia di questa. Hayat è convinta che gli italiani siano «persone buonissime», se percepisce qualcosa di cambiato, è colpa, per lei, dei giornalisti «che mandano messaggi di guerra contro tutti».

Quando Khalid Chaouki del Pd, primo deputato islamico della storia d’Italia, chiude dal palco quella che definisce «una manifestazione storica» chiamando tutti a «combattere contro ogni strumentalizzazione della religione, gelosi del clima di fiducia e convivenza del nostro paese», tutti applaudono. Anche due suore in azzurro, in disparte. Una delle due è libanese, di Beirut.