Quel ramo del Po di Maistra che corre senza sosta verso il mare con i colori ocra di un tramonto autunnale racchiude dall’inizio alla fine la valle e le vicende di chi fa un mestiere antico quanto il mondo: i pescatori. Preserva e avvolge come in un abbraccio l’antico e il moderno nel bellissimo film Per soli uomini di Elisabetta Sgarbi. Gli odierni pescatori che abitano le valli del Delta convogliano i pesci d’acqua salata in modernissime vasche di allevamento dove seguono la loro crescita con amorevole sollecitudine e con l’aiuto dei più moderni sistemi elettronici. La loro vita si svolge solitaria in un tempo sospeso che segue il ritmo della natura. La narrativa cinematografica della Sgarbi parte dal documento per arrivare a una modernità essenziale e provocatoria. Sembra sempre che non succeda nulla quando Gabriele, Claudio e Bertinotti sbrigano le pratiche di allevamento del pesce, raccolgono le uova delle galline, danno un’occhiata agli anatroccoli, preparano la colazione, mangiano con la gatta che gli salta sulle ginocchia, giocano a carte, camminano lungo l’argine compiacendosi per i carciofi che maturano. Invece ogni gesto, ogni momento, ogni sorriso malizioso di Gabriele, ogni abbandono malinconico di Claudio, ogni ricordo di Bertinotti acquistano la forza della rivelazione, epifanie di un modo di vivere che sembra estraneo ai cambiamenti, colto nel momento stesso in cui si rivela. L’eterno presente ha in realtà accenni, folgorazioni, battute che rievocano il passato dei protagonisti vissuto sempre in quei luoghi. Recupera la memoria di un fiume dove anni prima esisteva una pluralità di aziende che pescavano e allevavano il pesce. Di alcuni ricordano i nomi, di altri soltanto la statura. Bertinotti è in pensione ma non riesce a stare lontano dal Delta e quando è in città a casa di suo figlio si sente fuori posto. Il senso profondo dell’appartenenza al fiume, al Delta, agli attrezzi, agli animali domestici, a una vita da eremiti, viene fuori in ogni momento assieme alla bellezza incantata, ma non più incontaminata dei luoghi, al guizzare dei pesci vivi nella rete, agli uccelli che sfrecciano nel cielo secondo il ritmo delle stagioni. Al silenzio. La quotidianità colta nei piccoli particolari che restituiscono la concretezza del vissuto di questi uomini soli è vista e restituita dall’occhio femminile della regista che tende sempre di più al racconto, a un cinema che non è interessato all’inchiesta, ma vuole lasciar affiorare quello che non si vede, al sottile legame tra l’uomo e il suo ambiente, all’interferenza continua tra i due mondi. Totalmente affacciato sulla realtà, le panoramiche, i primissimi piani, i piani sequenza celebrano ora con solennità, ora con sobrietà la bellezza della natura, sembra sempre più rivolto verso una sottile testimonianza dell’invisibile, con echi e risonanze di una cultura orientale che tende a un cinema di ascolto e di visione, come se ci muovessimo lungo la traiettoria dello sguardo con la macchina da presa che cammina con noi.

Per soli uomini è il primo di una trilogia dedicata al Po anche se il grande fiume era già presente in Racconti d’amore e in Quando i tedeschi non sapevano nuotare. Come è nato il film?

Il film nasce da una indicazione di Rai Cinema che mi chiese di lavorare sul fiume e sul Delta del Po dal punto di vista storico e dal punto di vista antropologico. Così sono nati Quando i tedeschi non sapevano nuotare che tenta di raccontare la Resistenza nei luoghi del Polesine, e, appunto, Per soli uomini che racconta il presente della vita quotidiana in una valle del Delta di tre valligiani. La valle è un mondo a sé, un ecosistema tenuto in vita dal movimento interno dell’acqua e dalla vigilanza ossessiva di questi valligiani, dal loro moto continuo, vaghi ma attenti camminatori del fiume.

La prima impressione vedendo il film è che si svolga tutto in un presente sospeso nel tempo senza mediazioni. L’immediatezza diretta e coinvolgente era uno dei tuoi obiettivi?

Il tempo qui coincide con lo spazio rappresentato. Il tempo è la pura presenza della vita. O meglio delle vite che si sciolgono, entrano in consonanza o in conflitto con il mondo che questi valligiani “eremiti selvatici” (come si definiscono) abitano da sempre, che hanno scelto o da cui sono stati scelti, ma da cui non potranno mai distanziarsi perché quegli uomini sono parte di quel mondo. Sono uomini i valligiani, ma sono anche mamme, padri, fratelli maggiori dei pesci, amanuensi del fiume che accudiscono giorno e notte una miriade di innominati e innominabili esseri viventi. Volevo restituire il senso di quel tempo, di questa appartenenza, con tutte le sfumature che la vita offre: la malinconia, la comicità, l’orgoglio. Con rare o rarissime intromissioni del mondo esterno; ma è anche una esistenza sorniona, capace di ironia e sarcasmo verso un mondo, il nostro, che guardano da lontano, ma neppure troppo.

Dei tre protagonisti, Gabriele guarda a se stesso e agli altri con ironia. Claudio incarna la nostalgia della moglie che non lo vuole seguire nell’isolamento e ripete in cucina gesti e azioni che farebbe lei. Entrambi vivono nell’assoluto presente. Solo Bertinotti rievoca il passato, incarna la memoria del Delta. Che ruolo ha la memoria in questo film e in generale nel tuo cinema?

C’è un certo scarto tra i discorsi di Bertinotti e di Gabriele e la vita che vediamo. C’è la nostalgia di un passato, che però fa parte più di un naturale atteggiamento verso la vita e il tempo che scorre. Perché poi, nella vit a che i tre pescatori conducono, sono pienamente coinvolti nelle loro attività e nei loro gesti. Sono gesti perfetti, che arrivano al proprio esito senza troppi intoppi, come previsto. Loro mi pare vivano nel presente, nella “persuasione”, direbbe Michaelstadter. E questo è un aspetto molto bello. La memoria, la conservazione della memoria, non sono questa volta la mia intenzione primaria, perché Per soli uomini guarda in faccia la vita. Però il cinema è già memoria, è già naturalmente conservazione del passato.

Anche in questo film, segnato dal rapporto uomo-ambiente, dalla celebrazione della bellezza della natura, parti in qualche modo dal documento per trasfigurarlo in racconto, alla ricerca dell’invisibile. E’ così o no?

Beh, se lo fosse, ne sarei felice. Il documento non è, come per la memoria, il mio primo intento in Per soli uomini, che si risolve fin dall’inizio in una fenomenologia di situazioni e di gesti che catturano la vita nel suo farsi anche di quello che ha di solenne e di rituale. Non a caso Franco Battiato, che mi conosce ed è estremamente intuitivo, nelle musiche scelte per il film ha colto molto bene l’aspetto del sacro che attraversa non tanto il film quanto la vita, allargando le risonanze liriche e ampliando il significato antropologico.