È necessario provare a intendersi sul significato delle parole in uso. L’attuale politica monetaria può essere definita non convenzionale? Anche questa settimana le banche centrali di Giappone e Stati Uniti hanno preso alcune significative decisioni che fanno pensare che la risposta sia no. O meglio che quel che era considerato non convenzionale al momento dello scoppio della crisi ora stia diventando la nuova norma. Si fa un gran parlare di come i tempi per una ritirata delle politiche monetarie ultra-espansive siano maturi, ma per il momento nessun atto concreto va oltre gli annunci. Cosa sta accadendo? Intanto nessuna ritirata dalla moneta espansiva.

Dopo settimane di pressioni da parte delle Borse globali per non aumentare il costo del denaro negli Usa e dopo le recenti pressioni del mondo bancario giapponese in affanno per il costo dei tassi negativi, la Fed rinvia il rialzo dei tassi e la BoJ appronta una nuova fase del Quantitative easing orientata a mitigare gli effetti dei tassi negativi. Risultato: tutti gli operatori finanziari festeggiano con rialzi importanti. Quando viene formalizzato che il contesto economico non è in ripresa in maniera sufficiente, le politiche monetarie espansive vengono confermate, le Borse guadagnano terreno. Va male per tanti (occupazione, investimenti, consumi, ecc.), quindi va bene solo a loro. La Fed, dopo il primo modestissimo aumento alla fine del 2015, per il 2016 aveva messo in conto ben quattro rialzi del dollaro. Forse, un forse dettato dai continui rimandi, ce ne sarà solo uno a dicembre.

Il mercato del lavoro non migliora abbastanza, gli investimenti languono, i consumi negli ultimi mesi sono in contrazione, i profitti delle principali aziende quotate sono in diminuzione. Queste le ragioni di ordine interno che suggeriscono alla Yellen di rimandare, a cui si aggiungono le incertezze globali e i possibili effetti negativi che un aumento del costo della moneta statunitense potrebbe avere su un mondo che negli ultimi anni si è fortemente indebitato proprio in dollari. Vero è che da un po’ di tempo i debitori, specie in alcuni paesi emergenti, si stanno attrezzando per una ripartenza del dollaro, ma se tale evenienza non si verificasse ancora meglio sarebbe per loro.

La Banca del Giappone, diversamente dalle titubanze della Fed, appare svolgere una funzione di apripista.

Forse non a caso in considerazione del contesto stagnante che da tempo è costretta a fronteggiare. I nipponici decidono di confermare il Qe, provando però a mantenere il controllo dei tassi di mercato attraverso una politica monetaria selettiva e flessibile per mitigare gli effetti collaterali negativi del Qe stesso. Cioè deciderà di pilotare il rendimento dei titoli di Stato, cercando di stabilizzare quello dei decennali intorno allo zero e quello dei titoli di più lungo periodo in territorio positivo.

Questo perché il sistema creditizio acquista denaro a breve, ma offre prodotti finanziari prevalentemente a lungo termine. Ciò consentirebbe di ricevere una boccata di ossigeno a banche e fondi pensione. Inoltre la Boj ha raccolto il suggerimento di qualche settimana fa dell’Economist sulla modifica dei target per le banche centrali, ponendosi per l’inflazione un obiettivo superiore al 2% e concedendosi così un ulteriore spazio di manovra.

Questo è il punto: il dilemma delle politiche monetarie. Da un lato le politiche monetarie accomodanti hanno normalizzato il panorama finanziario, dall’altro non sono sufficienti per far ripartire i consueti meccanismi. Al contempo però appaiono ancora indispensabili, proprio in virtù della fragilità del quadro generale. In qualche misura tali politiche sono diventate convenzionali e invece di superarle si cerca di modularle per fronteggiare gli attuali problemi. Una dimostrazione evidente dell’attuale impasse.