Armonia e incanto riservano le opere di Ettore Spalletti a quanti sanno abbandonarsi alle gioie del colore disteso in larghe superfici nelle gamme tenui e aurorali che gli umani riservano agli appena nati. L’occasione per goderne è offerta da tre grandi mostre presentate in altrettanti musei: il MAXXI di Roma, la GAM di Torino e il MADRE di Napoli, i quali, alleatisi in un inedito e felice esperimento, omaggiano l’artista abruzzese, nato a Cappelle sul Tavo nel 1940 e residente nella vicina Spoltore. La gallerista Lia Rumma ha sostenuto questa operazione, necessaria dal momento che tra i compiti delle istituzioni pubbliche vi è quello di studiare e valorizzare la migliore arte del proprio paese. Lo hanno fatto in maniera egregia i curatori, ciascuno responsabile della mostra nella sede che dirige, Anna Mattirolo a Roma, Danilo Eccher a Torino, Andrea Viliani con Alessandro Rabottini a Napoli. Come spesso accade agli artisti che concepiscono il proprio lavoro in relazione al contesto nel quale si trovano ad agire, la scelta delle opere da esporre e la loro disposizione si devono allo stesso Spalletti, responsabile, insieme ai collaboratori del suo studio, anche del catalogo (Electa, pp. 400, euro 45,00, edizioni italiana e inglese), di fatto un’edizione d’arte.

In comune le tre mostre hanno l’assoluta indifferenza per il tempo storico. Le opere, infatti, si snodano nei diversi percorsi senza alcun riguardo per la cronologia. «Mi piace annullare l’idea del tempo», dice Spalletti nell’intervista di Carlos Basualdo, primo dei numerosi contributi pubblicati nel catalogo. Altro tratto comune alle tre mostre è l’apertura assegnata alla medesima fotografia in bianco e nero scattata da Giorgio Colombo nel 1976 nella galleria Pieroni, che all’epoca aveva sede a Pescara in un antico carcere borbonico. Vi si vede Spalletti chinato a terra, spianare con una spatola un materiale allo stato polveroso. Si tratta di due mattoni di gesso, uno rosa e l’altro celeste, con i quali l’artista aveva sostituito due delle vetuste pietre del pavimento: un intervento minimo che imponeva la sua lieve presenza nell’intero spazio vuoto della galleria.

Tolti questi tratti in comune, ognuna delle tre mostre è ordinata secondo una diversa logica. Potremmo riassumerle con tre termini, ciascuno dei quali si riferisce a un aspetto saliente del lavoro di Spalletti: lo stupore, il dialogo, la differenza. A Roma spetta lo stupore. Un cubo tutto bianco all’interno del quale quadri bianchi bordati d’oro abbagliano. Chi entra è rapito, sottratto alla dimensione familiare del vivere quotidiano, immerso in un ambiente che il niente esasperato del bianco rende pulsante e stordente. Una sorta di sbigottita espressione, Un giorno così bianco, così bianco, è il titolo di questo ambiente, lo stesso assegnato all’insieme delle tre attuali mostre. Voce bassa, un’altra delle opere esposte a Roma, è una delle più felici invenzioni di Spalletti, che l’autore ha modulato in diverse varianti a partire dalla Biennale di Venezia del 1997: un piano leggermente inclinato, un parallelepipedo di colore, una «forma del colore» – per dirla con il Roberto Longhi del Piero della Francesca – che colma della sua presenza un intero spazio architettonico e si fa paesaggio, o meglio orizzonte. Di fronte a quest’opera il nostro orizzonte, ossia tutto ciò che possiamo abbracciare con lo sguardo, è una rassicurante distesa azzurra. Non in questo lavoro di così grandi dimensioni, ma in tutti gli altri, Spalletti ottiene il colore sovrapponendo molti strati di pigmento e vaporizzandone la superficie per abrasione. Grazie all’impiego di questa tecnica, quadri e sculture assumono un valore atmosferico, i loro contorni sfumano e si ha l’impressione di un riverberare dell’opera su tutto ciò che le sta intorno.

Spalletti ha espresso la sua propensione al dialogo – in comunione con altri artisti, da Carla Accardi a Joseph Kosuth e Haim Steinbach – in alcuni episodi espositivi condotti con l’armonia di un pas de deux. A Napoli, nella sequenza di dodici ambienti che hanno la dimensione intima di stanze tutte profuse di luce mediterranea, il dialogo si concretizza, di volta in volta, tra coppie di opere. Nella prima stanza sono esposte la scultura Senza titolo, sottosopra del 2000 e il quadro Baci del 1987. Entrambe le opere sono costituite da una coppia di elementi simili accostati, ma il dialogo tra loro si configura anche nei termini gentilmente oppositivi della dialettica: un’opera grava sul piano; l’altra si erge in verticale; la materia dell’una è trasparente, dell’altra, opaca. Nella stanza successiva un grande dittico rosa cipria del 2011, bene assestato sulla parete, fa da controcanto a un disco di misurate proporzioni, potentemente nero e lucido, che pare di cogliere in volo. In un’altra stanza le facce di un cubo di alabastro si moltiplicano, amplificate, in una moltitudine di quadrati rosa. Fino al cuore della mostra, la grande sala regno del bianco e delle sue varianti, dove le opere, disposte lungo le pareti e a terra, sembrano riunite in un cenacolo garbatamente disputante.

La mostra romana rimarrà aperta fino al 14 settembre, quella napoletana fino al 18 agosto. Si è appena conclusa, invece, la tranche torinese, dove il grande disegno del 1981, tautologicamente intitolato Disegno, mano libera, con i suoi otto metri di lunghezza e una posizione privilegiata all’interno dello spazio espositivo, invitava a riflettere sulla diversità. Un’esemplare gamma di varianti è espressa in quest’opera attraverso le sfumature del lapis e la compostezza della geometria: rettangolo, cono, cilindro, sfera, esagono, linee curve e linee rette. Il catalogo di queste differenze con grazia inanellate aiuta a scorgere nelle opere di Spalleti, oltre la loro innegabile e ostentata conformità di colori e di forme, l’annidarsi dello scarto, la vitalità dell’asimmetrico, il coraggio della disparità, l’eroismo dell’incongruo. In altre parole: gli spessori mutanti dei dipinti, la loro asimmetrica posizione rispetto al piano della parete, la convivenza delle diverse linee che compongono il profilo di una colonna o di un vaso, l’accoppiamento di elementi apparentemente identici, inaspettate lumeggiature d’oro o d’argento da scoprire lungo i bordi, le matite bianche nascoste dietro ai quadri che distanziano dal muro e che sembrano custodire il segreto di una fattura lenta e paziente affidata alla mano.

Non si capisce il lavoro di Spalletti se non lo si mette in relazione all’arte concettuale. A quell’arte inaugurata da Marcel Duchamp e praticata soprattutto nella seconda metà del secolo scorso da artisti che, volendo sottrarre l’opera ai rituali di una società ingiusta, ne contrassero il valore nei presupposti mentali mettendone in discussione la presenza fisica. Testimonia una pratica concettuale la foto scelta per introdurre le tre mostre, nella quale vediamo l’autore mimetizzare la sua opera nell’ambiente, facendola quasi sparire affinché si percepisse il vuoto e la dignità antica dell’architettura. I due tasselli di gesso rosa e celeste incassati allora nel pavimento di Pescara, come tutte le altre opere di Spalletti, monocrome e geometriche, decantate dalle forme spurie che abitano lo spazio e il tempo del vivere quotidiano, sono un baluardo contro gli orrori del mondo. La volontà di schierare una difesa, questo è il presupposto mentale della sua arte distillata, che il degrado della tarda modernità rende drammaticamente attuale e necessaria.

Ma c’è dell’altro. Sin dagli esordi romani – avvenuti nel 1975 nella galleria La Tartaruga, dove Plinio De Martiis raccoglieva allora nuove leve con le quali riscattare la pittura che di lì a poco sarebbe esplosa nel fenomeno della Transavanguardia, sempre a Roma, ma in luoghi e con protagonisti diversi da quelli da lui coltivati – i monocromi di Spalletti non sembrarono, differentemente dai monocromi di altri autori, conseguenza di un’azione di azzeramento, e rimanevano estranei all’idea di tabula rasa. Le sue opere non comunicano il negativo della cancellazione, ma il sentimento positivo di una vita che nasce.

Le sue pitture e sculture, realizzate con una tecnica lenta e meditata, con le loro articolate combinazioni e le tinte gentili trasmettono la fiducia nel fare dell’uomo e nella sua capacità di allacciare legami affettuosi insieme a una delicata e originale percezione della natura. Da esse irradiano i colori dell’alba, e lieve e leggera si palpa l’atmosfera dei mari e dei cieli adriatici, in alcuni quadri affiora persino il profilo del Gran Sasso che la gente del posto chiama «La Bella Addormentata», e i ricordi, che l’artista evoca, dei paesaggi della sua infanzia non sono smentiti.