La comparsa del suo nome tra le pagine di questo nuovo e imponente saggio di Evgeny Morozov (Internet non salverà il mondo, pp. 448, euro 19) sorprende non poco. Tanto più che viene inserito in una platea che va da libertario Jason Lanier all’economista liberale Friedrich von Hayek, dal filosofo conservatore Thomas Molnar al critico radicale Ivan Illich, dalla «modernista» Jane Jacobs all’ultra conservatore Michael Oakeshott, da Hans Jonas a lui, Jacques Ellul, teologo, filosofo e sociologo noto per la sua critica alla tecno-scienza.

Eppure la presenza di Jacques Ellul è meno stravagante degli altri nomi, inseriti nell’eccentrico pantheon teorico di Morozov. Ellul, infatti, è stato uno fustigatore del ruolo svolto dalla tecnologia e dalla scienza nelle società contemporanee, collanti di una gabbia di acciaio che definisce il perimetro delle azioni umani, stabilendo all’interno regole di comportamento funzionali alla logica astratta e oggettiva imposta dalla scienza. Nel libro di Morozov tale impianto teorico torna continuamente, sia quando scrive di Internet che dei social network. Sia però chiaro: Morozov non è un apocalittico critico della scienza e della tecnologia, né propone una frugale e austera decrescita che rallenti lo sviluppo scientifico. È un blogger che apprezza il potere comunicativo della Rete e dei social network. Al pari di molti storici della tecnologia ritiene che le macchine siano protesi meccaniche degli essere umani. Ma è altrettanto convinto che la Rete, i computer, gli smartphone non sono protesi «stupide», ma hanno, in quanto «macchine universali» che riproducono attività cognitive, un potere performativo dei comportamenti, delle abitudini individuali e collettive. Sulla scia di Ellul, sostiene che siano espressioni di un sistema tecno-scientifico che limita le libertà dei singoli e inibisce le possibilità alle società di poter scegliere altre vie di sviluppo da quelle dominanti. Questo però non fa di Morozov un critico del capitalismo.

Un liberal del web

Lo studioso, giornalista nato in Bielorussia, ma statunitense per scelta può essere considerato uno degli esponenti più brillanti di un’attitudine moderatamente anticorporation e conservatrice che sostiene un intervento attivo dello Stato nel regolamentare la vita sociale, stabilendo limiti precisi all’azione delle multinazionali del digitale. Posizione che lo portano a scrivere di essere più in sintonia con i liberal che non con i repubblicani statunitensi. Significative in questo suo nuovo saggio non sono però le sue posizioni politiche, bensì l’analisi proprio della vita dentro e fuori lo schermo dove le strategie imprenditoriali di Apple, Google, Amazon, Facebook e Twitter più che aprire la strada a una società di liberi, stiano minando le basi della democrazia liberale.
Il libro di Morozov è certo una dettagliata critica della egemone welthashauung tecnocratica, anche se limita la sua analisi agli Stati Uniti, con l’Europa vista come una colonia tecnologia della Silicon Valley. Poco infatti viene detto su quanto accade in paesi sempre più rilevanti nello sviluppo della Rete. Alla Cina, all’India dedica infatti qualche distratta citazione e nulla più. Non che nei distretti tecnologici o nelle università cinesi e indiane non ci siano progetti di sviluppo alieni rispetto a quanto accade negli Stati Uniti o nel vecchio continente, ma con una differenza: la tecnologia è sempre una variabile dipendente di altre scelte e priorità economiche e di politica industriale. Il «tecnopolio», termine preso in prestito proprio da Ellul, è relativo solo all’operato delle imprese nella Silicon Valley, ma non dei distretti tecnologici cinesi o indiani. L’assenza di una analisi delle logiche dominante nei cosiddetti paesi emergenti non toglie forza alla requisitoria che svolge contro il determinismo tecnologico dominante. Il suo è un j’accuse contro quello che chiama, di volta in volta, «internet-centrismo», «soluzionismo», «tecnoescapismo», tre modi per qualificare una ideologia egemone che assegna ai modelli economici, produttivi e sociali presenti nella Rete una naturalità indiscutibile e una superiorità rispetto ad altre possibili vie di sviluppo sociale e economico.

Gli ideologhi del digitale

Morozov non esita quindi a prendere di mira tanto gli apologeti della Rete che i media theorist critici del regime della proprietà intellettuale operante su Internet. Da Jason Lanier a Nicholas Carr, da Lawrence Lessig a Yoachai Benkler, nessuno è risparmiato nelle critiche di Morozov, che li considerata tutti responsabili della «produzione» dell’ideologia tecnocratica dominante. Molti sono, ad esempio, gli esempi di come funzioni il «soluzionismo». L’inquinamento a livello planetario può essere risolto usando la Rete, perché limita la mobilità (tutto può essere fatto da casa); perché riduce il consumo di carta; perché i computer e le fibre ottiche possono essere prodotti a poco prezzo e consumando poco petrolio. La realtà dimostra il contrario – il livello di inquinamento provocato dallo smaltimento dei rifiuti «digitali» non ha nulla da invidiare all’inquinamento provocato dal petrolio -, ma questo è dovuto, sostengono i «soluzionisti», al fatto che l’organizzazione sociale è ancora modellata sulla società industriale. Basta quindi prendere coscienza che siamo nella società dell’informazione e adeguare le istituzione politiche è il problema è risolto: l’inquinamento diminuirà di conseguenza. La democrazia è in crisi? Come negarlo, ma attraverso i social network e la comunicazione on-line la partecipazione diffusa nel prendere le decisioni è garantita.
Su questo aspetto, Morozov ha molte frecce nel suo arco nel criticare il populismo digitale. Con feroce ironia, scrive che una proposta non basta che venga sponsorizzata da un numero alto di «naviganti» per essere la migliore. Inoltre, ma su questo aspetto Morozov è evasivo, Facebook, Twitter, Google e molte altre imprese dot.com fanno affari d’oro nel costruire, elaborare e vendere i Big Data accumulati attraverso l’uso dei social network o dei tanti blog operanti tra le due sponde dell’Atlantico. Anzi, alcune imprese fanno affari ospitando e organizzando forum di discussione politici, come testimonia l’impresa che gestisce il Blog di Beppe Grillo.
In fondo, proprio il gruppo italiano del «Movimento 5 stelle» strizza l’occhio alle dinamiche della Rete facendo derivare il proprio nome dal numero massimo di stelle che i recensori di libri o di siti pongono per segnalare il loro gradimento a un libro, un sito o una proposta. Tutto ciò nulla a che fare con una rinnovata democrazia rappresentativa, né con la sbandierata democrazia diretta dei populisti digitali.
I populisti digitali sono la bestia nera di Morozov, perché sono gli agit-prop di quel «tecnoescapismo» che vede nella Rete una sorte di eden dell’individuo proprietario che le vecchie oligarchie vorrebbero vedere cancellato per preservare il loro potere. Morozov è invece convinto che l’animale umano sia un animale sociale e che per questo abbia bisogno delle relazioni con l’altro per esprimere le sue potenzialità. Da qui la necessità della mediazione e della condivisione.

In nome della condivisione

Un’antropologia filosofica ignota agli apologeti della Rete, interessanti invece a spacciare come novità rivoluzionarie ogni minima e spesso irrilevante innovazione tecnologica. Uno spirito polemico, il suo, che raggiunge l’acme acme quando affronta l’oggettività costituita dai modelli proposti dalla tecnologia digitale a partire dalla neutralità rappresentata dagli algoritmi alla base del motore di ricerca Google (Page Rank) e di quello di Facebook (Edge Rank). Al di là del ragionevole dubbio sulla loro oggettività, visto che entrambi gli algoritmi sono coperti da brevetto e che finora nessuno è riuscito a capire come funzionano, è interessante la sottolineatura che l’autore fa del fatto che dentro le multinazionali high-tech lavorano uomini e donne che vivono in una società dove sono vigenti weltanshauung egemoni che ne condizionano l’operato.

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La critica alla neutralità degli algoritmi, banco di prova di una teoria critica della Rete ancora da sviluppare, viene sì nominata dallo studioso, ma non sviluppata. Per fare questo, servirebbe una analisi dei modelli epistemologici dominanti e sul regime produttivo del software e dei contenuti dentro e fuori la Rete. In altri termini, a costituire problema è il regime di sfruttamento presente nella società en general, così come costituisce problema la pretesa oggettività delle procedure e degli standard, i format imposti dalle tecnologie, che vengono sviluppate in base a una concezione dei rapporti sociali dove di oggettivo c’è ben poco. Ma è proprio sulla propagandata oggettività degli algoritmi che si manifesta il potere autoritario del «tecnopolio».
Il settore dove più evidente è la pretesa dell’internet-centrismo di funzionare come modello «universale» è l’«industria dei memi» – le parole chiave che scandiscono e orientano il flusso dentro Facebook e Twitter – per la sua capacità di condizionare l’opinione pubblica e la formazione delle decisioni politiche per salvaguardare gli interessi economici e la vision sociale delle imprese digitali. La conclusione è lapidaria: l’«internet-centrismo», così come il «tecnoescapismo» hanno molte caratteristiche delle società totalitarie del Novecento. Lo stesso vale per la difesa della privacy: un diritto ridotto a merce da acquistare a caro prezzo sul mercato.

Una privacy di classe

Il self tracking, infatti, è ritenuto il settore economico in espansione. Il monitoraggio della informazioni sulla propria vita e la possibilità di eliminare i dati che non vogliono essere resi pubblici sta diventando infatti una prerogative delle élite globali che vogliono salvaguardare la privacy rispetto alle tecnologie del controllo esistenti. Ma come sostengono gli attivisti e ricercatori del gruppo italiano Ippolita, il rispetto della privacy sta acquisendo sempre più caratteristiche di classe: chi può riesce a garantirsi zone d’ombre sulla propria vita; per la maggioranza dellla popolazione connessa alla rete, la propria vita diviene semplicemente trasparente ai colossi dei Big Data.
C’è il rischio che le tesi di Morozov abbiano come conseguenza – e in alcune parti del saggio è evidente una deriva «conservatrice» – un auspicato ritorno all’ordine sociale, economico e politico precedente la cosiddetta «rivoluzione digitale», compresa la difesa del welfare state e dell’intervento dello stato in economia in quanto soggetto economico, non solo come momento regolativo dell’attività economica, momento che non è mai venuto meno, come hanno d’altronde documentato da critici marxisti e da teorici della biopolitica. Ciò che però interessa Morozov è introdurre elementi di moderazione nell’ideologia dominante. È infatti assente ogni analisi sui rapporti sociali e produttivi nella Rete. Ignorati sono i meccanismi di appropriazione privata dei dati personali, elaborati e codificati per definire «profili» da vendere al migliore offerente; nessun accenno a come viene prodotto innovazione tecnologica e sociale; rimangono avvolti nel mistero i meccanismi di sfruttamento nella produzione di software e di contenuti.
Sono solo alcuni degli elementi che potrebbe consentire lo sviluppo di una puntuale teoria critica della Rete. Obiettivo diverso da quello di Morozov. La sua critica al «cyberutopismo» aiuta però a una pratica del dubbio che induce a resistere al canto delle sirene dello status quo.