La voce di Franco Maresco arriva al telefono da Palermo, in una mattina di settembre. Nei rumori di fondo sembra di percepire il vento, e di intravedere una spiaggia. Ma forse è solo una suggestione, o la memoria di un’immagine che compare nel suo ultimo film Belluscone. Una storia siciliana.

Dalla sua isola, che sembra molto più di una regione, Franco Maresco continua a raccontare delle parabole, piccole storie morali. Come già aveva fatto nel quasi sconosciuto, e bellissimo, Io sono Tony Scott.

Lo fa guardando in faccia la realtà – qualsiasi significato possa avere questa parola, oggi. Si mette di fronte a dei corpi e li interroga, cercando quello che è rimasto dell’umanità. Ci affabula, e ci diverte. Ci conduce in maniera sorprendente, in luoghi che a volte non vorremmo conoscere. Con un suo termine: ci devasta.

Chi ha coraggio, a questo punto, può continuare a leggere le righe che seguono. E correre a vedere il suo film.

Nel film sei un regista scomparso, dunque non sappiamo dove sei e cosa tu stia facendo. Ma come hai vissuto questi ultimi giorni, a partire dalla presentazione del film a Venezia, dove comunque hai preferito non andare, assecondando in qualche modo la tua messa in scena?

Male. Ho vissuto male questi giorni, a disagio. Perché per uno che non è abituato a questa esposizione, a questo tipo di esposizione che, se non è pari a quella di Totò che visse due volte, è comunque abbastanza evidente, tutto questo mette a disagio. Non la vivo bene. Perché è il mio carattere, e perché in ogni caso non mi piace la folla. E comunque essere al centro di un dibattito, anche laddove ci sono momenti positivi, spesso affettuosi, di sostegno, mi mette sempre a disagio. Anche perché ho naturalmente dei detrattori. E ho spesso anche esaltatori che loro malgrado contribuiscono a far incazzare di più i detrattori, che non sopportano questo incensamento.

E inoltre spesso non si centra, e questo è forse colpa mia, quello che in realtà il film è. Devo dire però, ad onore del vero, di aver letto anche delle cose molto vicine a quello che io pensavo, e che quindi in qualche modo hanno centrato il senso di quello che nelle intenzioni era il mio obiettivo, quello che volevo fare.

Forse è stato proprio il titolo ad aver sviato le letture più pigre. Quando uno poi vede il film, si chiede se veramente è Berlusconi, detto in italiano, il soggetto del film, o se invece Belluscone sia già qualcos’altro. Se tu dovessi dire quale è il soggetto del tuo film, come lo racconteresti?

Ecco, appunto: il soggetto del film si è spostato. C’è uno spostamento. Perché dopo una partenza, che è durata alcuni mesi, per cui, per dirla con te, il soggetto era Berlusconi, successivamente il soggetto è diventato Belluscone. E questo spostamento, anche letterale, che se fossimo in musica diremmo spostamento d’accento, naturalmente sposta il senso. Come quando tu togli un sassolino o un legnetto e viene giù la valanga, viene giù la montagna. Dunque il senso è completamente saltato, rispetto a Berlusconi, e il soggetto è Belluscone, con le due elle alla palermitana.

Per dirla come si diceva nel linguaggio del jazz di tanti anni fa, di quando insomma i musicisti improvvisavano su una canzone, improvvisavano su quello che nel linguaggio tecnico degli appassionati si chiama standard. Alla fine, senza fare confronti, se uno pensa, non so, a un Charlie Parker, questo prende uno standard e poi su quegli accordi, o su quelli di base, ne aggiunge altri diecimila, e diecimila altre sfasature, ritmiche, armoniche. E diventa un’altra cosa. Berlusconi o Belluscone è una canzone, uno standard. Per me era una variazione sul tema, se dovessimo usare il linguaggio della musica classica. Ma se invece usiamo quello del jazz, che a me è quello che piace di più, è un’improvvisazione su questa canzone ormai trita e ritrita. Per molti jazzisti peraltro, c’era l’equivalente di Belluscone nelle canzonette americane. Loro avevano la capacità poi, se ci riuscivano, se erano bravi, di tirare fuori anche dalla melodia più melensa, più scema, delle cose strepitose.

Come ogni tuo film, anche se mi verrebbe da dire vostro, già prima quando lavoravi in coppia con Daniele Ciprì, è un film difficile da codificare, proprio come ora ci raccontavi tu. E nonostante sia difficile pensare di associarlo a un genere, a me ha fatto pensare molto alla commedia all’italiana, o a una sua sorta di traduzione attuale. Nel senso anche banale che è un film dove si ride molto, e però poi ti rimane la percezione di trovarti dentro a una tragedia di dimensioni epiche.

E’ una coincidenza curiosa. Ma poi è la vita che è fatta di coincidenze curiose, per chi ci crede è il destino, per chi ci crede è fato… Mah, forse il fato in questo caso è fin troppo! Diciamo che il destino, o la coincidenza curiosa, se uno vuol essere più laico e razionale, è che guarda caso questo settembre è uscito il mio film – il 4 peraltro, il giorno di santa Rosalia qui a Palermo. E mi pare che in settembre esca anche il film di Daniele. E guarda caso tu parli adesso di commedia. E in realtà c’è, almeno nel mio film, questa filiazione. Sicuramente da un genere che era la commedia, quella dei Risi, dei Monicelli… Forse un po’ più Risi, che Monicelli, sebbene poi ci siano cose di Monicelli di cattiveria, anzi, strepitosa.

E guarda caso parliamo di commedia. E mentre io realizzo un pasticcio – un film, come dici tu, inclassificabile e che è molto difficile far rientrare in un codice, in un genere, e comunque se uno dovesse tentare, quello più vicino, in qualche modo più prossimo, è la commedia – guarda caso invece Daniele… C’è la matrice di cui tu parlavi, a cui facevi riferimento, Cinico tv, i film eccetera. Ma c’è poi una biforcazione, c’è una divisione. Perché Daniele realizza, mi pare, con il suo film La buca, una commedia più americana… Perché di italiano mi pare abbia poco. Perché se non sbaglio, avendo letto la trama, mi pare sia una specie di remake tutto italiano di Non per soldi ma per denaro. E però i toni mi sembra siano quelli della commedia. Anche se ora non ho voglia di parlare di un film che non ho visto (anche perché poi non vado al cinema da troppi anni) e forse non vedrò se non successivamente, in qualche modo. Sì, sicuramente sarà una cosa curiosa: da una matrice, da una sorgente che fu quella dei nostri anni più felici dal punto di vista creativo, ci sono poi due sviluppi totalmente diversi.

E quindi sì, diciamo che c’è una estremizzazione, un antefatto che potrebbe essere visto, rivisto e ritrovato e cercato ne I mostri di Dino Risi, in quel tipo di cattiveria, che peraltro era molto lungimirante. Quando si dice di quello che è stato Berlusconi, o dei vent’anni di berlusconismo e bla bla bla, basta andare a guardare un film di quegli anni per rendersi conto che Berlusconi c’era già. E non solo nei vari Sordi, nei vari Tognazzi, ma proprio in quel genere di cialtroneria. Basta guardare gli episodi de I mostri, per vedere proprio l’antropologia di Berlusconi. Quindi Berlusconi, ancora una volta, e uno lo ripete fino alla nausea, non è la causa, ma è semplicemente la riconferma di un destino antropologico di una realtà nella quale non è un caso che gli italiani si sono poi riconosciuti. Tra l’altro è anche banale fare l’accostamento già con il precedente ventennio, quello del duce. E’ un’Italia che è sempre quella, naturalmente si va aggiornando, ma la base rimane quella, insomma.

Tempo fa il regista Robert Kramer mi disse che secondo lui un bel film è un film che racconta anche la storia del film che si fa. Questo in Belluscone mi sembra sia quasi esemplare. Quanto è diverso il film che abbiamo visto noi dal tuo progetto iniziale? Sappiamo che è un film che ha avuto un’avventura sia creativa che produttiva abbastanza lunga. E molto lo conosciamo dal film stesso, anche se non sappiamo bene cosa sia vero e cosa invece falso. Molti hanno parlato per questo di Welles, o di F for fake, o comunque di questo genere di dispositivi. Belluscone all’inizio era forse più Berlusconi, e poi è diventato invece Belluscone.

La differenza è come quella che c’è tra il giorno e la notte: era totalmente un’altra cosa il film all’inizio. Il film all’inizio era poi, come sempre, come mi è successo in questi anni, il tentativo di mettere insieme un lavoro che doveva essere molto breve, una cosa veloce. Berlusconi stava ancora al governo, e doveva essere una cosa televisiva, una cosa che si potesse vendere insomma, che si potesse far girare e avere, come dire, qualche soldo.

In realtà poi, strada facendo, prevale sempre il carattere, prevale sempre quello che tu hai dentro. Ci sono cose che non riesci ad accettare, cose che vedevo e che non mi piacevano. Io nel bene o nel male ho bisogno di cercare una mia chiave, una lettura originale. In quel caso mi ritrovavo a dire intanto delle cose, che potevano essere un approfondimento di quello che i giornalisti d’inchiesta già dicevano – metti Travaglio, metti Santoro o altri giornalisti, che sia sulla carta stampata sia in televisione hanno fatto per anni approfondimenti, hanno fatto questo tipo di indagine, questo tipo di ricostruzione.

Comunque già all’inizio c’era una parte di satira, e in questo senso, stranamente, il film era ancora più vicino a quello di Sabina Guzzanti che non al mio. Ma alla fine la mia natura è proprio così, ed era già così quando ero ragazzo, quando uno provava a scrivere… A tutti è capitato di scrivere una poesia. Di scrivere qualche cosa o di suonare qualche cosa.. di troppo. Non so, io avevo una specie di demone – che mi fa prendere le cose e che me le fa gettare, che me le fa schifare, che me le fa appallottolare, mi fa chiudere il pianoforte – che quindi interviene, e quindi io viro verso il comico. E’ la mia natura: chiamala se vuoi grottesco, anche se per me comico è uguale. E’ la stessa cosa che dire tragedia, insomma. Dopodiché non ci riuscivo, e sentivo che non stavo facendo niente, non stavo dicendo niente di mio. E quindi a quel punto lì poi… l’incontro con Ciccio Mira e … E’ andata come è andata. Si è rifatto un altro tipo di film.

Infatti, e questa è, prometto, l’ultima citazione. Parlando con registi, ci è capitato spesso di sentirci dire – davvero da molti, tanto che Raoul Ruiz parla di passaggio di consegne – che a un certo punto, facendo un film, ti rendi conto che è il film stesso che deve imporsi. Che è esso stesso che inizia a farsi. Vedendo il tuo film questa era un’impressione che si aveva fortissima.

Diciamo che è vero. Stamattina qualcuno mi leggeva, o mi scriveva, una piccola traduzione o una sintesi, di un paio di articoli che sono usciti su riviste francesi. Perché la domanda e la curiosità che mi veniva, ma io peraltro la risposta me la do già, era che cosa potesse apprezzare il pubblico e la critica straniera rispetto a questo film. Naturalmente io spero per le sorti produttive (ride)… Ma temo capisca poco: dalle cose che leggevo, che peraltro avevano un apprezzamento, temo poco. Anche se poi devi metterci la traduzione eccetera eccetera.

In questo senso mi ha fatto piacere, e questa è una piccola divagazione, che uno dei componenti della giuria di Orizzonti, David Chase, che è questo autore/produttore dei Soprano, lo leggevo in un’intervista su Il manifesto, ha detto che aveva trovato molto bello il film di Franco Maresco. E non mi stupisce per le sue ascendenze italiane: in qualche modo ha visto più di quanto possa farlo uno straniero.

Detto questo, per me questo è un film che naturalmente ha a che fare con Palermo, e quindi naturalmente la gente mi dice: usciamo dalla sala con l’amaro in bocca, usciamo angosciati… L’altro giorno una mia amica mi scriveva: non ho dormito, ho avuto incubi, ma è possibile veramente che Palermo sia la città che tu descrivi e che io non mai voluto nemmeno accettare per ottimismo forse troppo ingenuo e perdente? Quindi c’è questo aspetto. Ma in realtà per me questo film è legato al precedente, che pochi conoscono, quello su Tony Scott. E a sua volta quello era legato a Cagliostro.

Quindi una specie di trilogia, che nei fatti non volevo… Ma capita poi di fare una riflessione a posteriori, e ci si accorge invece di come si dipani un filo da tutte le cose. Con esiti naturalmente diversi. Però il discorso di base rimane sempre quello. In Tony Scott c’era sì l’amore per il jazz, la grande fascinazione che emana un personaggio come Tony Scott, la sua musica, ma soprattutto era un film sulla sorte che lui ha avuto come artista dal mondo contemporaneo…

e in particolare da quello italiano…

Eh sì, da quello italiano alla fine di un secolo. Per me era importante la riflessione sull’impossibilità di fare arte. Nel caso suo era la musica. Nel caso specifico di questo film, mi ripeto, il pretesto era come una canzone, ma in realtà è una riflessione sull’impossibilità di fare, non so se arte, ma di sicuro di mettere in forma un’idea di cinema. E quindi voleva dire mettere in gioco anche la propria, se vuoi, impotenza, angoscia e presa d’atto rispetto a questa condizione.

Quindi, ora qualcuno potrà dire: quante volte il cinema è morto eccetera eccetera. Ma naturalmente non sono morte le immagini, anche se per me di fatto lo sono. Ma è ovviamente un’idea di cinema che è sparita.

Il film quindi di fatto continua ad essere il film del commiato, continua ad essere sempre il cinema del commiato. E ovviamente si porta dietro una serie di fini, o di fine. Di finali. E quindi Ciccio Mira, i quartieri che spariscono, quindi sparisce anche un’ispirazione. Sparisce un’umanità. E dunque ecco la contrapposizione neomelodico/giovane di un Ricciardi, o di un Erik, con Ciccio Mira. Che non a caso nel film è sempre in bianco e nero (tranne quando è in televisione per i fatti suoi). Ed è un colore che scende, che sembra più un Ferrania… E’ chiaro che è questo l’aspetto principale.

E qui viene fuori anche il carattere autobiografico, lo specchio del film. Anche quando tu dici che non si può fare arte in Italia, siamo in tanti a vedere degli autoritratti, come già in Tony Scott.

L’autoritratto c’è sempre. Una volta si diceva se si doveva separare l’opera d’arte, o comunque il lavoro o il film o quello che è, dalla vita. La mia è forse una concezione evidentemente romantica, nel senso proprio storico, ma… non puoi separare per esempio la malattia, a volte il disturbo mentale, la malattia fisica, la vita, da quello che fai. Sì, poi probabilmente ci sono delle eccezioni. Uno ascolta la sonata n.19 di Mozart, per dirne una, che viene scritta poco prima di morire, quando questo era devastato. E se uno ascolta, e non sa nulla di Mozart, dirà che c’è tutto tranne che il dolore per la fine prossima. Non so se sono d’accordo, ma mi ricordo di aver letto questa cosa che scriveva un grande musicologo. Invece io credo – ed è così probabilmente per noi contemporanei, noi più vicini ai moderni – che questa identificazione ci sia, e che da Baudelaire in poi insomma, con la nascita della modernità, diventi più evidente.

Questo scriviamolo pure, ma per tornare a cose più terra terra, quali il mio film, che è una cosa veramente modesta, c’è sempre stato questo autoritratto, anche in Cinico Tv, in qualche modo. Poi via via si è svelata sempre più direttamente questa parte autobiografica, che però già c’era anche in una cosa che dura tre minuti o sessanta, dove tu metti, riversi, riveli le tue ossessioni. Riveli proprio il malessere contingente, quello che ha cause contingenti e non astratte. Se uno lo vede a posteriori, chiaramente ha una serie di indizi, di riconoscimenti, di dati che allungano questo film, che mettono insieme questi pezzi. Via via c’è stato questo disvelamento.

Anche tu sei in bianco e nero, nel film, come Ciccio Mira…

Beh, questo è vero relativamente… No, nella parte finale… Perché invece ci sono due o tre cose, una …

quando entri in campo durante l’intervista…

O quando con Tatti c’è la tendina… Sì, però nel finale c’è questo bianco e nero di Bigazzi, un super8…

Il finale è forse una delle cose più devastanti del film, diciamo le ultime tre scene: gli estratti televisivi di Renzi e la suora, le interviste durante i titoli di coda, e l’ultima scena di Erik con la rosa, o il fiore, per Bontate.

Diciamo di sì. Probabilmente la parte, e lo riconosco anch’io, più malinconica, più cupa, più pessimista, è quella dove c’è una presa di coscienza di un’impossibile riabilitazione. Come diceva il buon Sciascia: di una prova provata definitiva di una irredimibilità.

E devo dire che io onestamente non credo alla bontà degli essere umani. Essendo uno che ama molto i cani, gli animali – ad esempio questa storia dell’orso: questi qui che danno la caccia all’orso in Trentino e che è uno schifo, una cosa… Ci vorrebbero cento orsi per devastare questi bastardi! – quindi io che amo i cani, vedo negli occhi dei cani, quanto di meglio la natura abbia dato, vedo veramente la miseria dell’uomo. Un tizio una volta ha scritto, ma più di uno, che nello sguardo dei cani c’è proprio la commiserazione, la pietas per l’uomo. Ma io che non ci credo alla bontà degli esseri umani, questa cosa ce l’ho fatta entrare lì. E anche lì c’è poi una sorta di pietas, una sorta di disperata, perfino, compassione. Ma alla fine uno tira fuori quello che vuole, la legge come vuole.

Mi hai fatto pensare all’asino di Bresson.

Esatto. E peraltro quello è uno dei pochi film che io non riesco a vedere (Au hasard Balthazar, ndr).

Nel senso che ti fa stare troppo male?

Ma no, assolutamente. C’è l’asino, devastato… Ma no, è un fatto vero, proprio non ci riesco. Sembra strano ma non ci riesco. Anche se è un film straordinario, forse proprio il film più spietato, più lucido, la riflessione più lucida sulla cattiveria dell’uomo. Assolutamente. Quella è inarrivabile, da questo punto di vista.

Però purtroppo io non riesco a credere nella sopprimibilità del male, a questo non ci credo, non lo so… Non so cosa succederà quando, come dicono i soliti geni dell’informatica, quando i computer arriveranno alla singolarità, e quindi ci saranno questi esseri nuovi, e si formeranno nuove coscienze. Non so lì cosa succederà. Anche se penso che ci saranno intelligenze artificiali che faranno il male, che praticheranno il male. Allo stato attuale puoi dare tutto quello che vuoi all’uomo, lo puoi ibridare con la tecnologia, lo puoi rendere più ricco, ma rimarrà sempre la merda che è sempre stato. Non c’è niente da fare: non si libera dal male. Liberaci dal male! Non si libera dal male. Questo è il punto. Parlassimo di Totò che visse due volte… Ma parlare in questo film di metafisica, di massimi sistemi, mi pare un po’ esagerato. Però gettiamola lì, tanto ormai…

Come hai incontrato Ciccio Mira? Sei partito dalla canzone che avevi scoperto…

No, io Ciccio Mira lo conoscevo da vent’anni. Fa anche un’apparizione nello Zio di Brooklyn.

Ah ecco, lo dicevo perché in effetti c’è una relazione straordinaria.

Lo conosco da una vita, lui per me è straordinario. Poi devo dirti che è all’antica, quindi fedele all’amicizia. Dio ci guardi dai renziani, Dio ci guardi da questa Italia, da questo mondo, come leggevo questa mattina, in camicia bianca. Da questo mondo dalle belle ministre. E da questa umanità, minchia. Dio ci guardi da questo. Ci vorrebbero mille, duemila o diecimila Renzi, o diecimile ministre e ministri per fare un solo Ciccio Mira! Proprio dal punto di vista della ricchezza umana.

Rispetto ai tuoi complici soliti, del tuo lavoro precedente, si sente anche il fatto che incontri un’umanità che non è quella solita, che ami.

Questa è una cosa che mi pare abbia scritto Andrea Inzerillo, che è un palermitano…

Sì, infatti, l’ho vista…

Dice che si vede che Maresco non ama i suoi personaggi… Ed è vero. Non li odio, non li detesto, non li disprezzo, però non c’è nessun feeling, non c’è nessuna forma di amore nei loro confronti. Proprio perché li sento ormai altro. C’è una linea di demarcazione tra loro, me, e perfino Ciccio Mira. Li trovo proprio, nel senso letterale del termine, mostruosi, li trovo terrificanti…

Però, ripeto, c’è anche sempre in fondo questa pietas, c’è volendo anche una forma di compassione, però … fanno paura. Se devo dire la verità, fanno paura. Ma non che fanno paura, come se uno si mette a vedere…. Ma proprio se ci stai vicino. Se li guardi negli occhi, se li vedi nel loro quotidiano. Fanno paura proprio per la loro inconsapevolezza. Fanno paura per la loro incoscienza, per la loro totale mancanza di autocoscienza. E’ terribile. Sembrano veramente ultracorpi.

Quello che mi sembra invece una forma tua di resistenza, e uno dei fuochi del tuo cinema, resta proprio l’esposizione dei corpi. E in questo senso, ho trovato di una trasparenza di esposizione fortissima come hai presentato questi nuovi corpi.

Sì, perché comunque ancora con i corpi ti relazioni. Vale anche per questi ragazzi ipertatuati. La cosa che dicevo che ti fa paura, o che ti mette una certa pena, è il fatto di vedere volti che sono volti del Sud. Che ne so, Ricciardi è di Ercolano, Erik è naturalmente di Palermo, di una frazioncina di Palermo, Villagrazia. Vedi questi giovani, vedi le ragazzine che cantano Cancelletto, non so come si chiama, una cosa delirante. Vedi queste facce. E se le guardi da vicino, ti rendi conto che sono le facce del Sud.

Per fortuna vedi anche questo grasso che deborda, questi culi enormi. Vedi ancora tracce, almeno nei corpi, di un essere umano che però si avvia ad essere altro, e quindi è un ibrido. Diventano una cosa mostruosa, proprio perché vedi corpi, e nel frattempo teste, e nel frattempo sguardi, che raramente hanno lampi di vera, di vera, autenticità. Mentre se tu guardi Ciccio Mira, lo guardi negli occhi bene, vedi l’autenticità, vedi l’uomo. Quando guardi quegli altri, vedi che nella testa hanno Canale 5, hanno Maria De Filippi, hanno Amici, hanno youtube, hanno facebook. Veramente hanno niente.

E’ questa la cosa che ti fa toccare con mano questa mostruosità: questi ibridi, questa coesistenza nei corpi che comunque si portano dietro le tracce di che ne so, di arabi, di normanni, di quello che siamo stati. E queste facce, poi. Così formate alla maniera tutta meridionale. E poi invece vedi questi occhi, queste facce, questi sorrisi, tutto come se fossero in una specie di connessione continua, o comunque di ripresa. Qualche cosa come un reality show: vivono come se fossero inquadrati sempre a favore di videocamera, di telefonino… E’ una cosa agghiacciante. Questo orrore che peraltro livella tutto. E quindi rende uguali bergamaschi e catanesi…

E’ un discorso appunto pasoliniano da una parte…

In questo senso c’è in me una consapevolezza pasoliniana, anche fin troppo evidente. Cioè di questi delle borgate che nel frattempo hanno tatuati, smartphonizzati, quello che vuoi… E’ chiaro che questo è l’estremo discorso che Pasolini aveva così tragicamente profetizzato. Ma è anche banale dirtelo. E’ anche così banale sottolinearlo, così sciocco…

Allora faccio una domanda quasi giornalistica. Dovessero uscire tutte le interviste che hai fatto (parafraso una domanda che fai in uno dei momenti forse più incredibili del film, cioè nel tuo incontro con Marcello Dell’Utri) cosa succederebbe? Si vedrà mai qualcosa di queste interviste, o quello che è rimasto fuori è solo un materiale che ha partecipato alla costruzione del film e che, in un certo modo, scomparirà? Perché chiaramente viene la curiosità di vedere questi incontri…

Sì, c’è una quantità enorme di interviste. C’è una quantità enorme, ma proprio enorme, di conversazioni tra me e Ciccio Mira. Ci sono cose molto divertenti.

Ce n’è una in particolare che è rimasta fuori e che dura un minuto e mezzo, due minuti, ma che è una cosa esilarante, in cui si mette insieme, e sembra strano a dirsi, un discorso sull’essere (è possibile pensare al niente?) e l’omertà, e il silenzio di fronte ai carabinieri dopo un omicidio. Una cosa in cui secondo me Ciccio Mira supera… Che se uno fosse un filosofo, e sembra banale dirlo, mettere inseme Parmenide… Perché è questa la cosa. Tu dici – Si può pensare al niente? A cosa stai pensando? E lui dice – A niente. – Ma come fai a pensare a niente? E qui lui si unisce a – Come quando tu dici ai carabinieri che ti chiedono: cosa è successo? Tu: non è successo niente niente. Come lui ci arriva è una cosa che nemmeno il più bizzarro e creativo dei filosofi o degli storici della filosofia poteva riuscirci. Eh, Ciccio Mira c’è riuscito. Questa è una cosa che ci terrei a fare.

Allora manteniamo le speranze…