Avrebbe meritato forse più attenzione l’inaugurazione di stagione del Teatro dell’Opera di Roma, che ha fatto rumore nelle cronache per il mancato ingresso in sala della sindaca Raggi, presidente del Teatro. Il 7 dicembre, all’apertura della Scala a Milano con i politici è andata anche peggio, ma la crisi di governo fungeva da inattaccabile scusa.

 

 

 

 

Proprio nel confronto «inaugurale» con la prima scaligera, tuttavia, Roma regge il confronto per una seconda volta, dopo il notevole exploit di The Bassarids di Henze presentato lo scorso anno. Merito innanzitutto di Daniele Gatti, che ha offerto una superlativa lettura di Tristan und Isolde di Wagner, ottenendo dai complessi del Teatro il massimo impegno e una palpabile adesione alla sua impostazione interpretativa: tre atti costruiti come tre possenti arcate di un’unica architettura sonora, i tempi distesi, all’interno del cui tracciato gli sviluppi, psicologici più che narrativi, si disegnavano in un susseguirsi sorprendente per mobilità e varietà di sfumature, senza cadute di tensione. Il suono dell’orchestra è denso, bronzeo, salvo poi trovare quelle trasparenze, ombreggiature notturne – nel secondo atto e poi ancora nel finale – in cui Gatti proietta la scrittura wagneriana verso il novecento di Debussy.

 

 

 

 

Una lettura   indimenticabile, aggrondata da un ineluttabile destino di morte, immanente anche nel compiersi dell’estasi amorosa, perché nel Tristan und Isolde, come ha ripetuto spesso nei giorni scorsi il direttore milanese, il destino è segnato dal principio per i protagonisti, intrappolati in un eterno anelare che trova soluzione solo con la morte di entrambi.
L’impostazione di Gatti è stata tanto convincente da invadere e vivificare anche il risultato del palcoscenico, dove la regia di Pierre Audi, con il quale Gatti aveva debuttato nel titolo al parigino Théâtre des Champs Elysées di Parigi, che coproduce l’opera insieme ad Amsterdam, presentava una proposta di generico minimalismo punteggiato di elementi simbolici già visti in altre sue regie. Un immenso monocromo nero saliva e scendeva fra scenografie di carattere astratto–evocativo, con un primo atto fitto di pareti mobili che scorrevano e ruotavano suggerendo il fasciame della nave, acceso però dei colori delle tele di Hartung, Vedova e Fontana: fanoni di immani cetacei sbiancati dal sole per la foresta pietrificata del secondo atto, giaciglio-parallelepipedo di lucida ossidiana con catafalco di Tristan a vista sulle dune già al principio del terzo atto. Shabby ma mai chic né efficaci i costumi, firmati come le scene da Christoph Hetzer, magnifico invece il gioco di luci ideato da Jean Kalman. Robert Dean Smith il 6 dicembre ha sostiuito Andreas Schager: sicurissimo e preciso nel seguire il rarefatto disegno lirico pensato da Gatti.

 

 

 

 

Intensa e luminosa l’Isolde di Rachel Nicholls, cui converrà però maturare tecnicamente. Debole la Brangäne di Michelle Breedt, molto convincenti invece il re Marke di John Relyea, il Kurwenal di Brett Polegato e il solare marinaio di Reiner Trost. Successo pieno per tutti e ovazioni ripetute per Daniele Gatti. Oggi ultima recita.