Forse il titolo più adatto all’ultimo romanzo di Klaus Modick potrebbe essere Settantadue ore nella vita di un pittore, se non fosse già gravato da quello assai contorto di Concerto di una sera d’estate senza poeta (traduzione di Riccardo Cravero, Neri Pozza, pp. 188, euro 16,00): pur essendo decisamente intricata, la locuzione riflette tuttavia alla perfezione l’ekfrasis complessa e l’ancor più travagliata genesi del quadro omonimo di Heinrich Vogeler Concerto o Serata estiva, scelto da Modick come specchio – benché reticente – delle aggrovigliate geometrie amorose createsi ai primi del Novecento all’interno del cenacolo artistico di Worpswede, grazie anche all’inatteso apporto fornito da un ospite d’eccezione come Rainer Maria Rilke.

Per ricostruire i contorni di questa esperienza umana e creativa, tra le più originali della belle époque tedesca, l’autore si affida in egual misura ai diari del poeta e ai ricordi del pittore, tessendo il proprio intreccio intorno alle tre giornate comprese tra il 7 e il 9 giugno del 1905, allorché Vogeler, maestro riconosciuto dello Jugendstil, si appresta a lasciare la sua prediletta dimora di Worpswede, il Barkenhoff, per recarsi via Brema a Oldenburg, dove riceverà la Gran medaglia d’oro per l’arte e la scienza dalle mani del locale granduca.

Una consacrazione apparentemente definitiva per il pittore che, in realtà, coincide con una profondissima crisi d’ispirazione: il matrimonio di Vogeler con l’ex musa Martha è ormai finito, l’affinità spirituale con Rilke, «proclamata in maniera troppo frettolosa» si è trasformata in «rigida cortesia» e non resta più niente dei giorni felici in cui Worpswede, da remoto villaggio sprofondato nelle paludi, era diventato, d’un tratto, crogiolo di anime elette dedite all’arte. Lo sta a testimoniare lo stesso Concerto, quel quadro «riuscito così compiutamente male», dove i componenti del cenacolo – gli artisti Otto Modersohn, Clara Westhoff e Paula Modersohn-Becker – sono disposti nel giardino del Barkenhoff intorno alla figura assente del poeta Rilke, cancellata da Vogeler in un impeto di stizza. La mestizia dei loro volti insistentemente ritoccati, la fissità dei loro sguardi dolenti sembrano alludere, pur nel loro mutismo, a un fallimento comune. Così, il personaggio certamente più a suo agio nello spazio claustrofobico della tela è il levriero Karla, ritratta in primo piano sulla scalinata ai piedi della padrona Martha.

Eppure, l’utopia agreste di Worpswede è esistita davvero, e le pagine più riuscite del romanzo sono quelle in cui Modick, grazie a una vertiginosa successione di analessi, riesce attraverso le riflessioni malinconiche di Vogeler a illuminare le motivazioni ideali della fuga dalla città compiuta dal protagonista e dai suoi amici negli ultimi anni del XIX secolo. Andarsene da Brema per rifugiarsi nel Teufelsmoor, la «palude del Diavolo» situata a nord-est della città anseatica, significava innanzitutto rifiutare l’asfittica mentalità della borghesia mercantile dedita all’importazione di beni coloniali, e ricercare nuove forme di confronto sia con l’altro sesso, sia con la locale popolazione contadina. Una scelta che, in termini pittorici, si traduceva nel rifiuto della sensibilità Biedermeier e dei suoi soffocanti interni domestici, per precipitarsi all’aperto a raffigurare eteree fanciulle in ampie tuniche, libere dalla costrizione di lacci e corsetti, se non addirittura nude, sullo sfondo di verdi betulle e lividi tramonti nordici.

Difficile che una simile estetica non degenerasse da lì a breve in un estenuato decorativismo, e infatti ben presto Vogeler si ritroverà a confrontare, deluso, le sue composizioni stilizzate – peraltro assai apprezzate dai collezionisti borghesi di turno – con l’irruenza informe e sublime della natura.
«C’è così tanto che non è stato dipinto, forse tutto», sempre più insistente risuona al suo orecchio l’ammonimento dell’ex amico Rilke, che dopo aver fatto scandalo a Worpswede con la sua camicia contadina russa e le sue relazioni amorose con le artiste Clara Westhoff e Paula Becker, si è dileguato a caccia di nuovi stimoli creativi. Di lì a breve sarà lo stesso Vogeler a riprendere inaspettatamente la ricerca, sempre meno disposto a essere «un artista come lo desideravano la nobiltà e la borghesia che pagava e collezionava l’arte». Peccato che la narrazione pur pregevole di Modick si arresti alla soglia di questa rinascita, cioè quando Vogeler tenta invano di ricomprare dal mecenate Roselius la tela del Concerto per distruggerla.

Un senso crescente di insoddisfazione condurrà in seguito il pittore a Ceylon – dove resterà colpito dalla spietatezza dello sfruttamento coloniale – e poi nella Russia bolscevica, in cui intraprenderà una nuova strada di artista impegnato, fino alla morte avvenuta nel 1942, dopo essere stato deportato in quanto tedesco in Kazachstan. Tappe queste che restano fuori dall’orizzonte di Modick, cui resta tuttavia il merito di aver recuperato una delle figure più inquiete e affascinanti del Novecento germanico.