Georges Aperghis si prende il suo Leone d’oro alla carriera, ringrazia alla svelta con un mix di riserbo e timidezza e offre al pubblico del Teatro alle Tese un saggio della sua opera di compositore. Machinations, lavoro scritto nel 2000, prevede quattro voci femminili, elettronica e video. Le quattro chanteuses sono sedute davanti a quattro tavoli assai luminosi e tecnologici. Dietro di loro ci sono quattro schermi sui quali vengono proiettate immagini che sono inviate dalle stesse vocaliste, e si tratta di oggetti d’uso «senza tempo» e di parti del corpo, foglie, ciottoli, dita, ossa, cortecce di alberi, capelli, sabbia, conchiglie, semi, piume. Un virtuoso di computer si aggiunge al cast vocale, elabora i suoni delle partner e quelli sintetici prodotti dalla macchina.

Bene. Aperghis ha dato luce al 59° Festival Internazionale di Musica Contemporanea per il solo fatto di essere stato scelto. Un compositore di successo ma anomalo e libertario. Ora è il momento della sua musica e si vorrebbe tanto andarsene da Venezia con l’impressione, provata tante volte all’ascolto di lavori suoi, di aver avuto a che fare con un sovversivo dell’arte. La traccia letteraria di Machinations, con un testo preciso scritto da Aperghis e da François Regnault, riguarda una sorta di avventura del linguaggio parlato, dal fonema alla parola. Ed è un testo avant-garde pieno di giochi di assonanze.

La sillabazione di vocali suddivisa tra le cantanti-che-non-cantano – sono Donatienne Michel-Dansac (la divina), Sylvie-Bobette Levesque, Sylvie Sacoun e Geneviève Strosser – dovrebbe avere la parte predominante ed essere guidata dall’idea ritmica, dall’idea sonora. Ben presto, invece, si ascolta una pièce recitata. Una pièce di parole. Una pièce tutta teatrale, e di teatro «borghese», in cui gli aspetti musicali, per quanto «impliciti», derivati o esaltati dai soli gesti, dalle sole parole parlate, dai segni visivi che volteggiano sugli schermi, sono secondari o addirittura dimenticati. Quella a cui si assiste è una commedia, non un’azione scenica sonora. Sylvie-Bobette Levesque, per esempio, è impegnata allo spasimo in un vero brano viscerale, urlato, più teatro verista che teatro della crudeltà. Tutte e quattro si esibiscono con stupefacente bravura in mossette, risolini, scambi di battute. Naturalmente gusto, tono, gestualità appartengono all’universo della «meccanicità», altrimenti il moderno andrebbe a farsi benedire.

Di musica-musica non ce n’è e va bene così, è giusto così dato l’assunto del lavoro e le note predilezioni di Aperghis per ricavare la musica da elementi i più diversi e non canonici. A parte qualche sfarfallio stimolante di suoni sintetici messi in circolo dal computer, anch’essi, però, subito girati verso il grottesco e caricati pesantemente di teatralità. Perché tutto il lavoro è in realtà una miscela di commedia brillante e di commedia dell’assurdo dove il clima è sempre carico, sempre in cerca di una didascalia di qualcosa, forse del piacere del gioco un pochino goliardico. Insomma un po’ Goldoni e un po’ Ionesco senza tanta leggerezza. Modelli non dispezzabili, intendiamoci, ma un pochino logori per una partitura (già: si tratta di una partitura rigorosamente annotata) che arriva in anni recentissimi e rappresenta l’ultimo Aperghis, il musicista che dovrebbe aver aggiunto un tocco in più alla sua splendida vena indisciplinare.
Machinations piace molto ai critici musicali tradizionalisti, quelli che detestano Feldman e che non vedono l’ora di tornare ai soliti Mozart, Verdi e Puccini. Non è una prova, certo, è solo un indizio: forse vuol dire che non è innovativo teatro musicale o, meglio, innovativa drammaturgia del suono. Chissà se Aperghis conosce le opere di Robert Ashley, per esempio Celestial Excursions, ascoltata alla Biennale Musica del 2006. Anche là ci sono vocalisti seduti dietro tavoli, un po’ di elettronica, qualche video. E il fitto contrappunto di voci parlanti-melodianti è da perdizione. Ma là c’è la cultura viva del pop trasformato in avanguardia, non la fottutissima cultura borghese del vecchio continente con l’ennesina variante del birignao. Si sa, però, che i confronti sono sempre indelicati.

A proposito. Quest’anno la Bm è tornata al suo storico eurocentrismo. Una delle rare eccezioni americane del programma è John Cage. Ma adottato dal pianista David Greilsammer per un esperimento sulla carta attraente: associare sette sue Sonate prese dal ciclo Sonatas and Interludes a sette Sonate di Domenico Scarlatti. Il metodo è il seguente: Greilsammer suona uno Scarlatti sul piano normale, si gira verso il piano preparato e suona un Cage, poi si rigira e via di seguito. Questo concertista non pensa che Scarlatti e Cage siano avvicinabili perché entrambi «visionari», come afferma in una nota scritta: pensa che siano uguali. E li esegue togliendo interesse all’uno e all’altro. Come bis – ed ecco che si affaccia la sua vera tesi – fa la Sonata in re minore K. 213 di Scarlatti sul pianoforte preparato. Una roba da circo, più che altro.

Di serate o pomeriggi tristi ce n’è un certo numero in questa Bm povera di soldi e di idee. Le serate o i pomeriggi felici (o quasi) sono in numero maggiore. E questo è un bel merito di una direzione artistica in chiara difficoltà. Vediamo. L’Ensemble Recherche è sopraffino in quanto a perizia e sapienza. Mette, purtroppo, nel suo concerto un brano di pura accademia penitenziale del tedesco Alexander Moosbrugger e un brano ispido, convenzionale, in definitiva inutile di Philippe Hurel, ma col Trio fluido per clarinetto, viola e percussioni (1966) di Helmut Lachenmann manda tutti in paradiso. Lavoro estremo eppure pensato per rendere omaggio all’aggettivo del titolo. La fluidità come modo di vita, che bellezza!

Il duo Francesco Dillon (violoncello)-Emanuele Torquati (piano) non solo brilla per una lucida, modernissima qualità esecutiva ma ci fa conoscere due giovani compositori italiani. Sono Federico Gardella, che con Memorie di tempesta pratica un lirismo che potrebbe andare a braccetto con i pezzi blues del Coltrane di mezzo, e Silvia Borzelli, che con Further lambisce i moduli minimal e sa come si agisce dentro la pulsazione ritmica. Di eleganza sublime è il concerto del violoncellista francese Marc Coppey. Ha un titolo: Omaggio a Pierre Boulez ed è appunto costituito da 9 brani di altrettanti autori scritti per il 90esimo compleanno dell’immenso Boulez (nel marzo scorso) più un brano dello stesso festeggiato.

E poi dicono che Boulez è cerebrale. In Messagesquisse (1976) – Coppey interloquisce con altri sei giovani violoncellisti – è essenziale disteso cordiale. E che spirito negli assieme velocissimi a inseguire sogni, desideri, vita nuova! Il festival chiude con l’Orchestra Biennale College, strumentisti di tutto il mondo scelti tra quelli che studiano presso l’istituzione veneziana. Wagner e l’Idillio di Sigfrido, Webern e la Sinfonia op. 21, Sinopoli e Souvenirs à la mémoire: ecco la scaletta. Il complesso lavoro di Sinopoli, quasi dimenticato, risale al 1974 e potrebbe essere definito informale o espressionista astratto. Un Pollock sonoro «alla viennese».