Ho sedici anni e una parte rilevante della mia identità è da me affidata ai circuiti virtuali. Forse dire «affido una parte rilevante della mia identità» può suonare eccessivo. Ma, se considero quanto mi siano divenuti indispensabili computer, Ipad e cellulare e quanto sia essenziale alla mia vita il ricorso quotidiano che ne faccio e, fosse solo per il numero delle ore in cui sono collegata e chatto e navigo, il termine «eccessivo» mi appare persino riduttivo. E poi: eccessivo rispetto a che? Se eccessivo vale per «oltre misura» e indica un superamento improprio, un non stare entro i giusti limiti, mi chiedo: in quale ulteriore campo della mia identità il virtuale deborderebbe, dilagherebbe?

La mia identità è pervasa dalla relazione costante, permanente che intrattengo con il virtuale. Un esempio. Studio con il computer. La mia ricerca consiste nell’attivare motori di ricerca. Scarico i testi degli autori previsti dai programmi scolastici. Ovvero: non leggo per intero un saggio, un articolo, un libro, ma digito la parola sulla quale devo svolgere il mio compito o prepararmi per l’interrogazione in classe.

Se voglio ben figurare, cerco la medesima parola in un secondo autore e, una volta trovata, metto la frase in cui appare accanto al passo dell’autore che mi è stato assegnato. Scelgo tra i riferimenti bibliografici relativi uno o due brani critici da copiare e incollare. Combino così un elaborato che può essere il tema scritto o la scaletta per l’interrogazione orale. Mi sfugge la forma ‘conclusa’ del libro, ma seguo lo scorrere continuo delle frasi in un nastro dove non c’è il principio e non c’è la fine. Ogni affermazione sulla quale mi attesto è enucleata dal suo contesto. Labili fili la legano al corso del ragionamento che possa averla motivata e restano per me debolissime le connessioni di ordine storico. Non tocco l’argomento «scrivere». Potrei dire che molto digito e digitando mi appare un mondo scritto che leggo o, forse più appropriatamente, osservo come una successione di quadri sinottici. Faccio così soprattutto ricorso ad una dote ‘visiva’ che in larga misura mi è imposta dalla scansione per ‘finestre’, dal susseguirsi delle schermate. Questi i sommari e parziali accenni alle mia dimensione scolastica.

Per quanto riguarda l’universo delle mie relazioni amicali e sentimentali, non saprei descriverle prescindendo dalla fotocamera e dalla videocamera del mio smartphone, che impiego regolarmente. Una presenza parallela alla quasi totalità degli incontri e delle occasioni di scambio e di relazione. “Presenza parallela” è mal detto. Essa non corre accanto. Piuttosto, quando vivo il mio universo sentimentale (e amoroso) e lo esprimo e colloco nel virtuale, sento la strada o l’aula della mia classe come un luogo “parallelo”, che mi è d’accanto o mi circonda, ma non mi attraversa.

Lo stesso potrei dire della mia stanza, pur invasa di ‘cose’ mie diversamente dagli altri ambienti della casa: sfuma dietro di me, non la percepisco che come oscurità, mentre si apre la luminosa realtà on-line del mio computer. È la registrazione video, è la foto che fanno la ‘presenza’, che certificano il mio gesto e il gesto degli amici, il tempo e il luogo. Fissano il senso di un incontro e restituiscono, a me e a gli altri, la attestazione della realtà dei miei atti. Atti, ovvero: scelte, comportamenti, stili, sentimenti, complicità, emozioni. Ieri, dopo la scuola, ci siamo baciati e il nostro bacio l’abbiamo filmato col telefonino e l’abbiamo mandato ai nostri amici. Ho passato la serata a parlare in Skipe con lui. Guardandoci abbiamo fatto l’amore.