Ciò che subito colpisce, di Horst, è la straordinaria prestanza fisica. La sua è una bellezza «ariana», che George Hoyningen-Huene fissa nella lastra secondo il gusto naturista e grecizzante dei primi anni trenta, conferendole un risalto plastico degno degli atleti di Olimpia. Oppure accarezza con un obiettivo più morbido, riprendendo di tre quarti la curva delle spalle del suo protetto in atteggiamento pensoso, sulla spiaggia, accanto a Lee Miller, che fu modella, fotografa, pupilla di Man Ray e celebrata bellezza della Parigi surrealista.

Nato in Germania nel 1906, Horst Paul Albert Bohrmann aveva studiato design e falegnameria con Walter Gropius. Ventitreenne, e infiammato dall’utopia Bauhaus dell’unificazione di Arte e arti applicate secondo i principi di un’unica visione spirituale – energetica, raffinata, artigianale – si era trasferito a Parigi per lavorare presso Le Corbusier. Ma l’atélier del maestro lo deluse. Ben presto, nella città ancora vibrante dell’Esposizione internazionale di arti decorative e industriali moderne – da cui lo stile art déco – si ritrovò nei circoli di quell’avanguardia vagamente post-proustiana, tecnicamente ferratissima e al tempo stesso romantica, che si raccoglieva attorno a «Vogue», la rivista americana della quale, nel 1920, era nata la propaggine francese. Di «Vogue» Parigi Hoyningen-Huene era il fotografo star. Si aggiunga il fascino esotico del «barone baltico» espatriato dalla Russia rivoluzionaria, e si avrà una miscela irresistibile.

Come notò Elsa Schiaparelli – la fashion designer italiana trapiantata a Parigi – lavorare fianco a fianco con artisti del calibro di Cocteau, Dalí, Man Ray, Bérard, Vertès, Beaton, era «esilarante». Sollevava lo spirito, e lo disponeva alla creazione. Fu un atto creativo quello che al barone Huene fece intuire il talento fotografico del delicato ragazzo reduce da un soggiorno in un sanatorio svizzero, che fino a quel momento aveva studiato non la tecnica dell’obiettivo, ma i valori costruttivi del ferro e del legno. Gli ingredienti per una nuova pagina della Montagna incantata c’erano tutti. Introdotto nel sancta sanctorum di «Vogue», Horst Paul corrispose alle aspettative cominciando col firmarsi, per futuristico amore di brevità, «Horst». Oggi il Victoria and Albert Museum gli rende omaggio con una esauriente retrospettiva: Horst Photographer of Style (aperta sino al 4 gennaio 2015).

Nella sua lunga carriera, Horst esplorò tutti i maggiori generi fotografici: dalla ritrattistica delle emergenti celebrities, aristocratiche e cinematografiche, a studi d’interni animati, come in una conversation piece, dalla presenza di proprietari che si chiamavano Consuelo Vanderbilt Balsan, Cy Twombly, Truman Capote; da paesaggi naturali contratti in forma di natura morta, a studi di elementi vegetali che l’obiettivo trasforma in caleidoscopiche campionature di graphic design; dalla documentazione dei ripetuti viaggi in paesi mediorientali – all’epoca veri parchi-giochi dell’intellighenzia europea: a Hammamet Horst e Huene si erano fatta costruire una villa dove andava a trovarli Luchino Visconti, e un giorno si presentò Elsa Schiaparelli in costume e trucco da beduina – a delicati studi di Nudo condotti sulla modella prediletta, la svedese Lisa Fonssagrives, che era un’insegnante di danza quando Horst la scoprì. Lisa si immedesimò a tal punto nel nuovo lavoro da studiare ogni singolo vestito come una parte da recitare.

«Immaginavo quale tipo di donna avrebbe scelto l’abito che dovevo indossare, e mi calavo nel suo carattere».

Questa complessa produzione viene ora messa dalla mostra sotto la rubrica dello stile, di un concetto cioè la cui evoluzione passò da tratto distintivo del disegno a «stile di vita»: Horst – fotografo non solo dello stile, ma di stile egli stesso – contribuì a renderlo un fatto corrente. «La moda – diceva – è espressione dei tempi. L’eleganza è tutt’altra cosa». Parigino d’elezione se non di nascita, non gli sarà certo sfuggito il motto di Balzac: «L’eleganza è più costosa del lusso».

Almeno fino agli anni settanta, quando l’avvento dello stilismo complicò il quadro, la forza della grande foto di moda è nella sospensione espressiva che isola la modella in un mondo a parte, in attesa di un evento che non ci sarà. Huene accentua questa distanza con le sue pose neo-classicheggianti: drappeggiata nell’abito, la modella è la continuazione del piedistallo classico sul quale poggia. È una colonna umana. Un incrocio fra la cariatide e il logo della Columbia Pictures. Poi venne Horst e disgelò questa figura. Più che sui volti lavorò sui corpi: li fece scendere a terra; li animò in un gioco drammatico di luci e ombre che valorizzava i dettagli costruttivi dell’abito; li inserì in interni di sapore surrealista, alla Dalí; li mise a tu per tu con elementi «incongrui»: calchi di frammenti antichi, ingrandimenti di dettagli pittorici barocchi, onirici elementi paesaggistici. I volti rimanevano sereni, distaccati, assorti.

In quel fervido laboratorio di stili del design e stili di vita che fu la Parigi degli anni trenta, il corpo umano era centro vitale della sperimentazione, senza distinzione di genere. Entro la quotidiana alleanza cooperativa di artisti, attori, ballerini, modelli, fotografi, arredatori, la fotografia di moda fu, per Horst, punto di snodo e di raccordo. A guardar bene tutte queste professioni, dalla danza all’arredamento, fanno riferimento a una riconfigurazione del corpo e del suo abitare lo spazio. Quello chiuso e socialmente condiviso della casa, così come quello pubblico del palcoscenico e dello studio di posa. Ma preliminare a queste spaziature mondane – siano esse le scenografie di un Christian Bébé Bérard o gli arredamenti di un Jean-Michel Frank (cui Horst e Valentine Lawford si rivolsero per la loro villa di Oyster Bay, a Long Island) – c’è sempre, e va percepito, lo spazio di una sessualità anch’essa sperimentale, liberamente circolante entro il gruppo amicale dei pari.

Man Ray parla del «desiderio modernista» come «primo passo verso la partecipazione e l’esperienza». Tenuta per statuto a suscitare desiderio, la fotografia di moda, forse ancor più in bianco e nero che a colori, è esperienza immaginativa dell’abito, non sua illustrazione tecnica come negli schizzi dei figurini per sarte. Negli anni venti e trenta, i tagli di sbieco di Vionnet, le geometrie di Chanel, stavano donando alle donne i corpi nuovi, capaci di muoversi più liberamente, che noi abbiamo ereditato. Ma senza il supporto delle riviste specializzate avrebbe mai potuto farcela, la fotografia di Horst, e di quanti da lui impararono, a disseminare il desiderio modernista? Non è un caso che in quegli stessi anni «Vogue» e «Harper’s Bazaar» fossero riplasmate dai loro rispettivi curatori in vere e proprie strutture comunicative multimediali. Come disse Carmel Snow, la leggendaria signora di «Harper’s Bazaar», «i fashion editors riconoscono una moda quando essa è ancora cosa del futuro, i sarti la realizzano, ma le riviste (magazines) la fissano e la diffondono». A «Vogue» Horst contribuì con oltre novanta copertine – nella mostra forse la vetrina più spettacolare di tutte – che basterebbero da sole a farne un maestro del desiderio moderno.

Nel 1939, a Parigi, prima di imbarcarsi per gli Stati Uniti, dove avrebbe preso la cittadinanza americana, Horst scattò un’ultima foto: quella del «corsetto Mainbocher». Apparve un mese dopo su «Vogue» America. Ripresa di spalle in una torsione del busto formoso, memore della Venere Rokeby di Velázquez, la modella comunica l’invincibile forza della pazienza: cosa non si sopporterebbe per un vitino di vespa? Il New Look di Dior, che dominerà il dopoguerra, è già all’orizzonte. Ma senza «Vogue» e «Harper’s Bazaar» nemmeno Dior sarebbe stato «Dior». Le loro pagine, che sono già potenzialmente vetrine, fanno apparire supremamente eleganti e perciò desiderabili, i modelli che le lettrici troveranno nei grandi magazzini di lusso sulla Quinta strada. Dai magazines ai grandi magazzini, perciò.