È arrivata a Roma da poche settimane, Nezaket Ekici (Kirsheir, Turchia, 1973, vive e lavora tra Berlino e Stoccarda), artista in residenza all’Accademia tedesca di Villa Massimo, dove oggi per il ciclo Open Studios dei borsisti, presenterà la sua installazione-performance Mikrokosmos, coniugando i ricordi della sua infanzia in Turchia – quando insieme all’intera famiglia metteva la pasta fresca tagliata a pezzetti ad asciugare al sole in terrazza – con la vita attuale romana.

Allieva a Braunschweig di Marina Abramovic, Ekici ne è considerata l’erede. «Mi ha insegnato a vivere la performance come esperienza limite, fisica e psicologica – spiega – È un’idea sempre presente nei lavori in cui affronto tematiche molto forti. Bisogna avere una volontà di ferro. Essere estremi fino alla fine, ma diversamente da Abramovic, nelle mie opere c’è anche un pizzico d’ironia».

Teatralità, gesto, coreografia: in «Lifting a Secret» (2007) il caffè è associato alle parole, usando la vasellina per trascrivere la pagina di un diario personale…
In Lifting a Secret comincio a scrivere con la vasellina – sulla parete bianca – una storia che ho vissuto all’età di 18 anni. Parlo di come, in Turchia – in molti paesi – venga mostrata la sposa. Ancora oggi se una famiglia viene a sapere che in un’altra – anche se non si conoscono – c’è una giovane nubile, vi si reca in visita. Si chiacchiera un po’ e, poi, le famiglie decidono se combinare il matrimonio. In alcune, la sposa non ha alcun potere decisionale. È accaduto pure a me, nonostante li iei genitori fossero liberali, padre insegnante, madre casalinga. In Germania, però, abbiamo vissuto in un ambiente molto tradizionale. Soprattutto negli anni Settanta la comunità turca era come una colonia a sé. Questo contesto, segnato dalle tradizioni musulmane, è un tema che torna sempre nei miei lavori. Malgrado vivessi in Germania, perché i miei genitori emigrarono lì quando avevo tre anni, ogni due anni si tornava in vacanza in Turchia. Gli «incontri matrimoniali» avvenivano durante le vacanze. Io ho potuto dire di no, scegliendo di sposare un altro uomo che è tedesco, ma bisogna comunque essere sempre molto gentili e offrire una motivazione del rifiuto. Magari si adduce la scusa che si deve studiare, andare all’università. Si è molto rispettosi della tradizione. Ogni volta che ricreo la performance, mentre copio il testo sulla parete, provo una forte emozione e quando lancio con veemenza il caffè lo faccio per parlare di tutte le donne, prima le turche e poi tutte le altre. Ognuna dovrebbe avere il diritto di seguire il proprio destino.

Nezaket Ekici, Lifting a Secret, 2007 (ph Luciano e Marlen Fasciati)
Nezaket Ekici, “Lifting a Secret”, 2007 (ph Luciano e Marlen Fasciati)

 

Un’altra tematica a cui lei è molto sensibile è quella della violenza sulle donne…
Tooth for Tooth (2016) – dente per dente – è dedicato al femminicidio. È una videoinstallazione 8 canali in cui ho intervistato varie donne, a Istanbul e Antalya. Non hanno vissuto la violenza in prima persona, ma sono emotivamente coinvolte, perché ogni giorno sui quotidiani si parla dell’assassinio di donne da parte di uomini e di questioni d’onore.
Ho cominciato il lavoro in Turchia, ma potrei farlo ovunque. Ad ognuna ho chiesto di scegliere una storia che l’aveva toccata particolarmente e immaginare di trovarsi di fronte l’assassino di quella donna e tirare fuori, nei suoi confronti, tutta l’aggressività (mentre parla fa il gesto di tirare pugni, ndr). Nel video ci sono anch’io che racconto la storia di Pippa Bacca che, nel 2008, è stata violentata e uccisa in Turchia. È un modo di ricordare chi non c’è più, una memoria. È un momento così difficile, c’è tanto terrore, molta violenza in tutto il mondo che non riesco a starmene seduta, in studio, a fare solo lavori «belli».

Affrontando i tabù della religione musulmana, lei ha indossato il velo e si è seduta accanto a un maiale in «No Pork but Pig», mentre in «Permanent words» (2009) ha recitato alcune sure del Corano a testa in giù…
Nel Corano è scritto che non si può mangiare carne di maiale, ma non – almeno io non l’ho trovato – che non si possa toccare. Fin dall’infanzia sono cresciuta sentendo ripetere che il maiale sia da evitare. Mi sono chiesta il perché. Avrei potuto fare la mia performance anche in jeans, ma ho indossato il burqa e i guanti: doveva essere un simbolo dell’Islam. Non sono musulmana praticante, ma sono una credente aperta anche alle altre religioni. Nella performance tocco, sì, il maiale, ma lo faccio indirettamente attraverso il guanto. Non vedo il nero o il bianco. Provoco con rispetto. In Permanent words cerco di leggere mentre sono appesa a testa in giù. Leggo frasi che ho preso dal Corano, dal mio diario personale, dai giornali… Non recito esattamente il Corano, ma leggo frasi del tipo: «L’uomo e la donna hanno gli stessi diritti». Dico sia cose positive che negative. La performance è molto pesante: dopo trenta minuti a testa in giù, con il sangue che defluisce al cervello, fatico anche a leggere e la voce diventa tremolante. La scelta simbolica di indossare il burqa, anche qui, serve per rafforzare l’idea del lavoro, che ha a che fare con la religione. L’impatto è forte anche visualmente. Io stessa lo indosso per immedesimarmi e capire come ci si senta a starci dentro.
Non sono contraria all’uso del burqa, ma deve essere una scelta della donna e non un’imposizione da parte degli uomini. Nel Corano c’è scritto che le donne si devono coprire per contegno e modestia e per non provocare lussuria negli uomini. Ma non c’è scritto esattamente come ci si debba coprire e, comunque, non che ci si debba coprire del tutto. Anche questa è un’interpretazione. Un po’ come il burkini che è un tipo di burqa che sembra una muta subacquea.

Qual è il limite estremo che, nelle sue performance, ha deciso di non oltrepassare?
Non mangio maiale, mi spoglio, ma non sono mai completamente nuda. Sembra una contraddizione; ad esempio in Flesh (no pig but pork) del 2011 sono svestita e mi avvicino alla carne cruda di maiale, la annuso. Ho gli occhi bendati per concentrarmi meglio sui tre sensi di olfatto, vista e tatto. Gioco anche con il pubblico. Vivo in maniera ancora più forte il limite che mi sono imposta, fino a toccare la carne il cui odore è fastidioso, ma lo faccio sempre indossando i guanti.