Nessuna tregua per il governo sul fronte del mercato del lavoro. Al rientro dalla pausa estiva, i contratti a tutele crescenti non supportano la propaganda. Secondo le informazioni contenute nell’ultima nota mensile del ministero del Lavoro, pubblicata ieri, i contratti a tempo indeterminato (a tutele crescenti) al netto delle cessazioni sono stati appena 47 nel mese di luglio (lo 0,3% del totale dei rapporti netti).

Impietoso è il confronto con le altre tipologie contrattuali, a conferma che non c’è argine al precariato nelle riforme del governo. Tranne nel caso delle collaborazioni (-23.122), le altre tipologie sovrastano numericamente i tempi indeterminati. A luglio, il saldo relativo al tempo determinato è di 144.074 rapporti netti, i contratti di apprendistato e quelli classificati come «altro» (in cui vengono inclusi i contratti di inserimento lavorativo; di agenzia a tempo determinato e indeterminato; intermittenti a tempo determinato e indeterminato; autonomo nello spettacolo) sono pari rispettivamente a 7.785 e 6.633.

Anche le trasformazioni di contratti a termine in contratti a tutele crescenti rimangono di gran lunga superiori ai contratti netti a tempo indeterminato (27.328). Un dato sottostimato, in quanto non tiene conto delle trasformazioni di rapporti di apprendistato (contenuti invece nelle pubblicazioni dell’osservatorio sul precariato dell’Inps).

Le cifre non tornano

Al di là dei dati mensili, c’è qualcosa che non torna nella tabella di sintesi che il ministero ha pubblicato insieme alla nota di luglio. La tabella, che riporta i dati complessivi di attivazioni e cessazioni di rapporti di lavoro tra gennaio e luglio, mostra valori differenti da quelli che è possibile riscostruire partendo dalle note mensili. Soffermando l’attenzione sui contratti a tempo indeterminato, la differenza tra la tabella del ministero e la ricostruzione delle serie storiche mensili sottostima sia il numero di attivazioni che quello delle cessazioni, rispettivamente di 130.933 e 434.046 unità. Poiché la sottostima è maggiore per le cessazioni rispetto alle attivazioni, ciò implica che il totale di contratti netti è superiore rispetto a quello che è possibile desumere da una ricostruzione mensile dei dati. La differenza non è trascurabile: si tratterebbe di 303.113 rapporti di lavoro in più stimati dal ministero. Discrepanze che possono essere dovute a una molteplicità di fattori: errori di calcolo, revisioni, omissioni. È importante che il ministero risponda di queste differenze, pubblicando le revisioni o smentendo la tabella pubblicata nel caso si tratti di errori di calcolo, così da rendere trasparente l’attività di osservatorio statistico.

Stando ai dati in ogni caso non sembra finora possibile confutare la tesi secondo cui i pochi nuovi contratti a tutele crescenti attivati, di fatto stabilmente precari senza l’articolo 18, non sono il risultato di un rinnovato interesse delle imprese a creare occupazione, bensì degli sgravi che queste ultime sono in grado di intascare grazie alla decontribuzione sul costo del lavoro. Lo slancio, seppur tenue, segnato nei primi quattro mesi del 2015 è palesemente svanito a partire da maggio. Il rallentamento dell’economia italiana e l’inadeguatezza del governo nel far fronte alla crisi, nonostante la congiuntura favorevole, sta nei fatti.

L’attacco alla previdenza

Nel frattempo la maggioranza di governo ribadisce la volontà di comprimere ulteriormente i diritti dei lavoratori, così come si evince dalle proposte del senatore Pietro Ichino (Pd) sul ridimensionamento del diritto di sciopero e sulla possibilità di sostituire completamente la contrattazione collettiva con quella aziendale. Delegare le condizioni di lavoro e le retribuzioni alla contrattazione aziendale significa spostare ulteriormente il potere negoziale a favore delle imprese e a discapito dei lavoratori, soprattutto laddove i sindacati non esistono. La conseguenza più immediata e diffusa sarebbe la riduzione dei salari di base e il peggioramento delle condizioni lavorative. Inoltre, ci sarebbe il rischio di creare quelle che un tempo venivano chiamate «gabbie salariali», ovvero una differenziazione di salario tra Nord e Sud. Vere e proprie gabbie di sottosviluppo, e si avvererebbe l’allarme del rapporto Svimez sull’arretramento permanente e il sottosviluppo del Sud.

Fa eco uno dei consiglieri economici del premier, Tommaso Nannicini, che vorrebbe «sostituire la de-contribuzione sui nuovi assunti con un taglio strutturale del cuneo contributivo, senza fiscalizzarne i costi e incentivando i lavoratori a investirne una parte nella previdenza complementare». Rispetto all’attuale decontribuzione alle imprese coperta dalla fiscalità generale, nell’idea di Nannicini lo Stato non pagherebbe i contributi non versati, operando un taglio netto alla pensione futura dei neo assunti, come fanno notare Susanna Camusso della Cgil e Guglielmo Loy della Uil. Inoltre, suggerisce Nannicini, i lavoratori potranno chiedere in busta paga i contributi risparmiati che saranno a quel punto tassati come normale reddito. Oppure, investirli in fondi privati di previdenza, su cui proprio l’anno scorso il governo Renzi ha aumentato la tassazione.

Un progetto che renderebbe il sistema pensionistico più iniquo in quanto dal pubblico basato sul contributivo, si passerebbe a un modello di investimento privato, con un approccio retributivo basato sulla capacità di risparmio.