Arrivati all’ultima sala di Immagini Sensibili, la retrospettiva, che si potrà visitare fino al 4 settembre, con cui Palazzo Reale di Milano festeggia i 35 anni di attività di Studio Azzurro, la sensazione è quella di essersi mossi tra le tracce di un’utopia realizzata (ma sotto certi aspetti anche degenerata). La connessione tra reale e virtuale, che è sempre stata la costante della ricerca di questa «bottega d’arte contemporanea» come raccontata dal compianto Paolo Rosa che del progetto è stato l’agitatore, è il paradigma dell’attuale condizione postmediale, di quella «realtà aumentata» che stiamo vivendo, ibrido tra spazi e luoghi reali e informazioni virtuali.

Studio Azzurro ha declinato, da subito, il proprio fare in un’attività multiforme e fluida capace di far cortocircuitare tra loro differenti dinamiche espressive: siamo di fronte a un vero e proprio laboratorio alchemico capace di di impensabili misture in grado di precorrere quella tendenza al remix, al mashup che rappresentano le forme simboliche che meglio esprimono la sensibilità dell’oggi.

È interessante, ad esempio, vedere come gli esperimenti teatrali (di cui sono proiettati i video) realizzati a partire dagli Anni 80 continuino a influenzare l’indagine di molte compagnie di ricerca: vengono in mente i Motus (pronti per celebrare i loro primi 25 anni) che attenti, come Studio Azzurro, alla pervasività tecnologica pensano allo spazio della rappresentazione come un ambiente da espandere per mezzo di autentiche drammaturgie multimediali. Le «immagini sensibili», evocate dal titolo della retrospettiva, rimandano a un’idea di interattività socializzante. Le opere di Studio Azzurro sono degli «eventi»: situazioni e luoghi in cui si intrecciano liberi percorsi narrativi predisposti attorno al pubblico, che si scopre attore pur continuando a vestire i panni di spettatore. Un’idea di creazione partecipata che è purtroppo degenerata in quella che Marc Augé ha definito come «dittatura degli eventi», quei «nonluoghi» temporali, per riprendere delle suggestioni dell’antropologo francese, «dove si celebra un falso carpe diem imposto dalla società dei consumi». Ma questa appunto è la corruzione del pensiero che sta a monte del progettare e del fare di Studio Azzurro.

Il percorso espositivo segue quella che è l’evoluzione della ricerca del collettivo; quindi una continuità nella quale è però possibile distinguere due fasi: le cosiddette «video-ambientazioni», dal 1982 al 1993, e la svolta, iniziata nel 1995 e tuttora in corso, degli «ambienti sensibili», dove l’idea di stare dentro, e non semplicemente davanti all’opera si radicalizza e si realizza attraverso la scomparsa della cornice schermica.

Ad aprire la retrospettiva è Il nuotatore, videoambiente del 1984 che meglio esprime il primo periodo di sperimentazione, quello di rottura dello schermo: 12 televisori, uno vicino all’altro, che non ripetono la stessa immagine o ne trasmettono di diverse, ma che sono letteralmente «attraversati» da un nuotatore; un unico flusso di immagini per raccontare una lenta e ripetitiva azione, attraversato di tanto in tanto da micro-eventi, come la rapida apparizione di una figura, una palla o un salvagente. Sul primo momento narrativo, lungo l’intera fascia di monitor, si sovrappongono cento frammenti episodici, limitati ciascuno ad un solo teleschermo.

I titoli dai quali si fa partire il nuovo corso sono Tavoli (perché queste mani mi toccano?) e Coro entrambi del 1995. Da questo momento in poi scompaiono i monitor per lasciare spazio all’immagine «sensibile», sospesa finché non viene toccata dallo spettatore. Ciò che si vuole attivare è un coinvolgimento gestuale finalizzato a favorire un avvicinamento quanto più naturale possibile all’opera. In questi lavori possiamo trovare quella «prossimità» che sta caratterizzando le moderne tecnologie e che rappresenta la nuova frontiera dell’interazione uomo-macchina. È l’idea che sta alla base del touch screen: ovvero rendere i contenuti tattili, intimi.

La visita si chiude alla Sala delle Cariatidi con Miracolo a Milano, progetto ispirato all’omonimo film che nasce con l’intenzione di raccontare una città «invisibile»; quella di chi, senza casa, si trova a vivere per le strade. Figure nascoste, che si presentano solo quando il riflesso di un visitatore riempie uno degli specchi. Brevissime apparizioni che raccontano qualche cosa di sé, e una volta alleggeritesi dal peso della propria storia, con un salto, raggiungono il cielo incorniciato nell’ovale al centro del soffitto. Un’opera che dice di molto del pensiero di Studio Azzurro: leggero, ludico, espressione di un umanesimo tecnologico che opacizza fino a far scomparire la macchina per mettere al centro la consistenza del sentire.