Occhialini rotondi da miope, pancetta di tutto rispetto, nervi friabili e tesi fino allo spasimo, sensibilità acuminata, innata goffaggine e volontà di ferro, il chimico Vasilij Grossman (1905-1964) fece (come si usa dire) il diavolo a quattro per arruolarsi da volontario in quella che, in specie per il popolo russo, sarebbe diventata fin da subito la madre di tutte le guerre e la più cruenta e sanguinosa. Dichiarato dapprima inidoneo dalle autorità militari, riuscì infine a partire comunque per il fronte in qualità di attendente di secondo rango, escamotage che gli avrebbe consentito di scrivere i suoi articoli per il quotidiano La Stella Rossa, il foglio più letto nelle trincee e il più informato e anche, a condizione di saperne interpretare i codici d’uso della propaganda, il più veridico. Grossman parte circa due mesi dopo che le truppe tedesche sono entrate in territorio sovietico (22 giugno 1941) e il 15 di agosto dà inizio alla stesura dei taccuini che si era portato dietro insieme a una copia di Guerra e pace, taccuini che ora fanno da fulcro – accompagnati da brani di lettere al padre e alla moglie, da rimandi continui alle future opere letterarie, da testimonianze di varia natura e provenienza e da parecchie immagini fotografiche dello scrittore al fronte – al volume Uno scrittore in guerra (Adelphi «Biblioteca», a cura di Antony Beevor e Luba Vinogradova, traduzione di Valentina Parisi, pp. 411, euro 23,00): un documento unico, prezioso, di prima mano, quasi un diario intimo, segreto, regolato sull’orologio implacabile degli avvenimenti mentre si svolgono, scandito da una cronologia temporale lunga quattro terribili anni, da Briansk a Berlino (passando da Orel a Mosca, dal Donec a Stalingrado, da Kursk alla natia Berdicev, da Odessa a Treblinka, da Varsavia a Lódz, tanto per ricordare alcuni tra i luoghi più simbolici e concretamente decisivi), in un susseguirsi di arretramenti e avanzate, battaglie perse e vinte, speranze e scoramenti, in mezzo al fragore delle armi, nel gelo e nella nebbia che azzannano la carne e le ossa, nella polvere, tra le rovine, spesso comminando sui cadaveri ridotti pochi attimi prima dai cingolati a sagome senza fattezze o quasi a grotteschi bassorilievi.
Nessuna retorica, nessun piagnisteo, nessun trionfalismo. All’inizio per lui è un disastro: durante la prima marcia notturna che gli tocca di fare lungo una ferrovia, si accorge di essersi portato dietro una valigia troppo pesante, continua a inciampare, batte la fronte contro un vagone. Gli pare di trovarsi dentro un film il cui montaggio si fa via via sempre più denso, velocissimo, affannoso. Ma intanto, nell’arco di qualche mese, egli diventa un esperto di armi, di strategie e di tattiche militari, misura gli eventuali errori sul campo di battaglia come se guardasse dall’alto gli schieramenti contrapposti. Intervista generali, corre in prima linea, si apposta accanto al più celebre e implacabile cecchino dell’Armata Rossa e osserva da quel punto di vista privilegiato i tedeschi cadere giù come birilli, dorme dove càpita, nella mota, ai bordi degli acquitrini, sulle rive umide del Volga, del Don e della Vistola.
Non teme nulla, rivela un grande coraggio, un non comune sprezzo del pericolo e con gioia adolescenziale si vanta, in una missiva indirizzata al padre, di avere perso quasi venti chili di peso. Non gli basta osservare, memorizzare, annotare. Ha bisogno di abitare l’orizzonte di fuoco e fiamme, di non essere spettatore del naufragio dell’umano e del vivente anche animale (ad esempio, vede «l’immagine di Gomel’ bombardata negli occhi di una mucca ferita» oppure «due pappagalli morti nella loro gabbia» o, nell’agosto del 1945, dopo la caduta di Berlino visitando lo zoo, lo colpisce la visione di «cadaveri di scimmie, uccelli tropicali, orsi» e di un gorilla femmina). Egli stesso, con sguardo d’aquila, tratteggia folgoranti quadri d’insieme, masse in movimento, momenti di quiete dopo la tempesta, e la sua scrittura si esercita per ciò che sarà e che dovrà essere l’opera a venire: «Non è un ruscello, né un fiume, ma il lento andamento dell’oceano che fluisce, e l’ampiezza del suo moto abbraccia centinaia di metri. Sui carri, sotto i baldacchini improvvisati, spuntano le teste chiare e scure dei bambini, le barbe bibliche dei vecchi ebrei, i fazzoletti delle contadine, i berretti dei capifamiglia ucraini, i capelli neri di donne e ragazze. E quale placidità nei loro sguardi, quanto saggio dolore, quale consapevolezza del proprio destino e della catastrofe che grava sul mondo!». Grandiosa e tremenda lo attende l’epopea di Stalingrado assediata, della sua difesa, della sua resistenza. Vi giunge nell’agosto del 1942 e se ne ripartirà (non certo di sua volontà, anzi la separazione lo addolora) nel gennaio dell’anno successivo. La città è ridotta a un cumulo di maceria, incenerita sotto una coltre di lapilli ardenti, una Pompei del Novecento, già emblema glorioso di morte e di resurrezione e simbolo di una Europa irriducibile e non arresa alla «cultura di Hitler» che il popolo russo, più di qualunque altro, ha dovuto patire nella propria carne. Leggendo i taccuini di Grossman ci si rende conto di quanto abbia contato il generale e crescente sentimento di disprezzo, oltre al gelo, alla forza delle armi e agli errori tattici e psicologici, nella sconfitta germanica. Ad esempio – e si tratta di una scena non sanguinosa, quasi di placida convivenza quotidiana – i nazisti nei villaggi occupati defecavano normalmente all’aperto, davanti alle izbe, sotto gli occhi delle donne, giovani o anziane che fossero, e mentre mangiavano, scoppiando a ridere, «emettevano rumorose flatulenze».
Il disprezzo, dunque. Così le povere case che erano state abitate dai tedeschi venivano subito ritinteggiate come dopo il passaggio di un’epidemia. Così ai corpi morti per congelamento del nemico non si risparmiava lo sfregio di rimetterli «in piedi, in ginocchio, a creare intricate, irreali sculture». Quei morti «si ergono con il pugno alzato o le dita spalancate, altri invece è come se corressero, con la testa rinserrata tra le spalle». Follia e dolore si mischiano in questi taccuini che, come si sarà capito, non nascondono nulla e nulla rimuovono (l’antisemitismo ucraino, il collaborazionismo, le atrocità commesse ai danni delle donne tedesche). E neppure essi tacciono sul rapporto indiscutibile e si direbbe addirittura sacro – una cosa sola, un solo orizzonte, un solo obiettivo – tra Stalin e il popolo russo – quel popolo che «sa vivere nel peccato, ma muore da santo», in totale purezza d’anima e di mente, in una condizione quasi monacale.
Ma i taccuini vanno letti inoltre come una sorta di officina, di laboratorio buono per l’immediato futuro, quando le cose per l’ebreo Grossman si complicheranno in maniera drammatica, proprio lui che era riuscito a scamparla nei feroci anni trenta del Grande Terrore. Nell’inverno del 1944, con tre anni di ritardo, viene a sapere della morte violenta della madre. Quel dolore immedicabile, nutrito di senso di colpa, rappresenterà, insieme all’esperienza bellica, la molla che lo solleverà alle altezze che sappiamo. Nel decennale della perdita scrive alla madre una prima lettera. Nella seconda, datata 1961, leggiamo: «E io sono te, mio unico bene. Finché vivrò vivrai anche tu. E, quando morirò, vivrai nel libro che ti ho dedicato e la cui sorte è così simile alla tua». Si sta ovviamente parlando di Vita e destino.