Per gli aztechi era un luogo dedicato a Uitzilopochtli (che in nahuatl significa «colui che viene dal sud»), il dio della guerra, protettore di Tenochtitlàn. Oggi è stato inghiottito nello sprawl dentro lo sprawl di Mexico City, confluito nel barrio di Coyoacan, tessera quasi centrale nel mosaico infinito del Districto Federal. Ma Churubusco, già sede di un monastero barocco dedicato a Nuestra Senora di Guadalupa (poi trasformato nel Museo de las Intervenciones, a ricordare i «ripetuti attentati all’integrità territoriale del Messico»), è stato soprattutto il luogo di un massacro, preludio all’ingresso delle truppe nordamericane nel cuore di Città del Messico e alla conseguente annessione di California, Texas, Nevada, Utah, oltre a buona parte di Colorado, Arizona, Nuovo Messico e Wyoming.
Il 20 agosto del 1847, un anno prima che l’Europa si incendiasse, però, a combattere a Churubusco non erano solo le truppe regolari e ben armate dell’esercito degli Stati Uniti, affiancate dalla ferocia dei ranger texani e opposte a quelle smandrappate dell’esercito messicano. Insieme ai perdenti c’erano anche soggetti che eccedevano la squilibrata geografia nazionale di una guerra (neo)coloniale, o più semplicemente imperialista, combattuta da due stati postcoloniali. E questi soggetti, a uno sguardo ravvicinato, hanno finito per trasformare il senso di quella guerra in qualcos’altro. A pochi giorni dall’esplosione del conflitto (e perlomeno in un caso, quello del leader John Riley, alcuni giorni prima), un centinaio di immigrati irlandesi, arruolati col miraggio della cittadinanza e di un pezzo di terra, decide non solo di disertare ma di passare dall’altra parte.

Creature di acqua e memoria

La vicenda del Batallon de San Patricio, o del St. Patrick Batallion, sorta di brigata internazionale e anti-imperialista ante litteram, che col tempo cresce nei numeri accogliendo immigrati tedeschi, francesi, qualche italiano e diversi schiavi fuggiaschi, è fugace, poco più di un anno, e decisamente perdente, con un solo sopravvissuto (Riley appunto, perché non giustiziabile come disertore). Ed è stata liquidata chiamando in causa motivazioni religiose (la comune fede cattolica di irlandesi e messicani), negando così una ragione più profonda, rintracciabile in quella «linea del colore» che tagliava in due un continente e il mondo intero rifrangendosi al di là del colore in ogni ambito, a partire dagli eserciti. Ma è una storia che ritorna, una storia «not to pass on» come quella di Sethe, creatura di acqua e memoria al centro di Beloved di Toni Morrison: una storia che non è possibile tralasciare proprio per la necessità di guardare avanti.

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Sul Battaglione di San Patrizio sono state scritte canzoni (Ry Cooder, Chieftains), realizzati film e scritti diversi libri, tra cui uno recente di Pino Cacucci (Quelli del San Patricio, Feltrinelli). Qui però vorrei parlare di un altro modo di raccontarlo, di not to pass on: la graphic novel Churubusco realizzata da Andrea Ferraris (già autore di un alto racconto a disegni sulla biografia straordinaria di Ottavio Bottecchia, l’anarchico delle due ruote) e pubblicata da Coconino Press. Perché la scrittura a volte corre il rischio di dire troppo, e per non tralasciare e rivivere questa storia, restituendone le pieghe, o anche solo immaginarle, occorrono anche tempi più dilatati, spazi bianchi, silenzi, vuoti, segni graffiati.

Nel modo in cui è letta da nord (dallo spirito che viene dal nord) quella del San Patricio è una storia di diserzione. E raccontata così crea disagio, ma poco più. Disertare è gesto tanto più nobile quanto più le logiche militariste e nazionaliste lo considerano ignobile, costituendone il punto di non ritorno, l’impensato. E sappiamo quanto sia necessario un elogio della diserzione, come gesto di sottrazione/negazione à la Bartleby («I would prefer not to») la cui potenza si rovescia contro ogni pretesa positiva, affermativa, produttiva. Penso in particolare a traduzioni attualizzate di quel gesto, come nel caso dei Refusnik israeliani, dove l’inoperosità più che inceppare la macchina dell’Idf le punta il dito contro e l’atto di non partecipare ai raid aerei su Gaza diventa plateale condanna dei raid stessi. Certo, ci vuole coraggio a disertare. Perché non si tratta solo di negarsi al gioco, ma di svelarne l’imbroglio: lo sa chi in questi giorni è stato sottoposto a una sorta di gogna mediatica per essersi rifiutato di lavorare gratuitamente per Expo.

E nondimeno disertare a volte non basta, nel senso che non esaurisce per intero la potenza di un gesto, la sua portata per così dire costituente: nella scelta di andare a morire con gli uomini, le donne e i bambini di Churubusco o di essere court-martialed e giustiziati all’istante con l’infame marchio a fiamma della D di Deserter (e magari sopravvivere insieme a quel marchio, come nel caso di Riley), oltre a Bartleby c’è anche Spartaco. E forse è possibile cogliere il soffio contrario di un analogo «vento del sud», dieci anni dopo, nel 1857 a Calcutta e poi quasi ovunque sui territori del Raj, nel gesto che porterà i sepoy indiani alla rivolta dell’Indian Mutiny.

Perché è chiaro: quella dei militanti del San Patricio non è stata solo una vicenda di diserzione. E per evitare di pass on su questa ulteriore piega, un elogio della diserzione non basta. Quella vicenda ci riconsegna la traiettoria di un’inversione a U che, a differenza della conversione, raccontata sempre come illuminazione istantanea, repentina e rivelatoria, implica soprattutto i tempi maturati, protratti, contraddittori e biografici di una progressiva scelta di campo, e quindi un percorso e un processo di soggettivazione: «decidere insieme come condursi in modo diverso», si potrebbe dire.

Ho passato un po’ di tempo a cercare (invano) queste parole, e in quest’ordine, nella breve parentesi (la lezione del marzo del 1978 del corso al College de France sulla governamentalità in Sicurezza, territorio, popolazione) che Michel Foucault dedica alle controcondotte, intese come una serie di pratiche e comportamenti, individuali e collettivi, che si oppongono al governo delle anime della chiesa, rintracciandone esempi negli anabattisti e nelle ali più radicali della riforma, e possibili prosecuzioni nei movimenti anarchici e socialisti del XIX secolo. Resta il fatto che Foucault non tornerà più su quell’idea, lasciandosi alle spalle un sentiero interrotto che avrebbe potuto trovare nuove routes guardando fuori dall’Europa, oltre l’Europa.

Decidere insieme come condursi in modo diverso scioglie nella prassi, on the way, un percorso di soggettivazione/individuazione collettiva che diventa una presa di parte, di una parte che è altro non è che quella dei senza parte, lavorando dentro a uno stesso orizzonte, quello della guerra, degli eserciti, ma ritorcendosi contro. Per questo forse la storia del Batallon de San Patricio ci racconta di una particolare forma di controcondotta, dove condursi insieme in modo diverso, oltre a essere una scelta personale, soggettiva, è un continuum in cui storia individuale e collettiva si fondono, come un’onda sulle onde, passi che confluiscono, si sommano, si coalizzano e precipitano in una serie di gesti e di azioni più che di parole. E mi piace pensare che sia stato Uitzilopochtli , lo «spirito che viene dal sud», a «soffiare» sulla scelta di campo di un gruppo di migranti arruolati nell’esercito americano con nient’altro da perdere se non le proprie catene.

La forza del medium

A partire da una traccia, un nome (Robert Garretson, nato a Messina e morto a 22 anni il 13 giugno del 1847), Ferraris reinventa la storia dentro la storia del passaggio al San Patricio di un giovane siciliano e la racconta con pochissime parole, molti silenzi e molti paesaggi, quelli in bianco e nero del racconto e quelli virati su un marrone tirato con il caffé della memoria dell’infanzia in Sicilia. Così, nel continuum di paesaggi che si confondono emerge la particolare continuità di una vita, una scelta agita più che riflettuta, e in quanto tale progressiva e inevitabile, come un appuntamento con la storia.

Ci sarebbe molto altro da dire su questo racconto tutto per immagini e quasi senza parole. Per esempio ci si potrebbe interrogare sulla sua particolare forza sinestetica, sulla potenza narrativa di questo bizzarro medium freddo e polisensoriale, così lo definirebbe McLuhan, che sa restituire i vuoti, i silenzi, gli spazi bianchi con una forza che la scrittura raramente possiede (sempre a proposito di graphic novel e «spazi bianchi», c’è da segnalare a questo proposito Undocumented di Tings Chak, giovane architetta e attivista di Toronto che racconta attraverso il disegno l’architettura della detenzione infinita nei «Cie» canadesi – www.tingschak.com/undocumented). Ma preferisco fermarmi qui, nell’increspatura dilatata di una scelta di campo, un decidere insieme come condursi in modo diverso e contrario seguendo il vento del sud, un gesto che chiamare diserzione non basta.