La ventesima edizione del Festival di Busan, svoltasi dal primo al 10 ottobre, è stata preceduta da numerose polemiche. La decisione dell’anno scorso da parte della direzione di non ritirare dal programma il documentario The Truth Shall Not Sink With Sewol sul disastro del traghetto Sewol nel quale hanno perso la vita 295 persone, come richiesto tra gli altri anche dal sindaco della città Suh Byung-soo (anche membro del comitato organizzativo del festival), ha fatto sì che il Kofic (Korean Film Council) abbia scelto di ridurre del 45% la cifra stanziata a favore della manifestazione presentando come motivazione ufficiale la necessità di rafforzare i festival di Bucheon e Jeonju.

Nell’ambiente del cinema coreano questa decisione è stata letta come ritorsione nei confronti del festival e del suo direttore Lee Yong-kwan per avere rifiutato di oscurare il film denuncia di Ahn Hae-ryong e Lee Sang-ho. Alle pressioni esercitate nei confronti del direttore di rassegnare le sue dimissioni, il festival ha risposto affiancandogli l’attrice Kang Soo-youn. Eppure, nonostante i presagi foschi, i numeri hanno dato ragione al festival. Stando a fonti dell’industria, come l’Hollywood Reporter, quest’anno Busan ha avuto una presenza record di ben 227377 persone con 302 film provenienti da 75 paesi.

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Principale punto di riferimento per il cinema asiatico, nonostante la forte concorrenza di Pechino, Hong Kong e Tokyo, il festival di Busan, che si svolge principalmente nel Busan Cinema Center, situato nell’area di Centum City comprendente anche i centri commerciali ultramoderni Lotte, Shinsegae e il Bexco, dove si svolge l’Asian Film Market, non nasconde la propria ambizione di essere una Cannes asiatica. Con una skyline di alberghi ultramoderni affacciati direttamente sul mare, tale da fare impallidire la Croisette, Haeundae Beach è il luogo nel quale si ritrovano registi, programmatori, giornalisti, produttori, compratori e venditori serviti da un impeccabile servizio navetta che fa la spola con il Busan Film Center ogni dieci minuti. Fra i momenti più forti di un mercato che a detta degli addetti ai lavori è stato più ricco del solito, la presentazione dei work in progress di Lav Diaz e Wang Bing.

Il regista filippino, accompagnato dalla produttrice Bianca Balbuena, dall’attrice Hazel Orencio e dal produttore associato Paolo Bertolin, ha presentato A Lullaby to the Sorrowful Mystery. Progetto ambizioso, ma a giudicare dalle poche immagini viste, già capolavoro sublime, il film si presenta come un intreccio di motivi ispirati alla rivoluzione filippina del 1896-1897 contro la Spagna. Diviso in tre parti, il film ripercorre la storia della canzone di Jocelynang Baliwag diventata inno della rivoluzione, la ricerca disperata da parte di Gregoria de Jesus del corpo di Andres Bonifacio, il viaggio di Simon e Isagani, la figura di Bernardo Carpio e il mito di Tikbalang/Engkanto, metà uomo e metà cavallo.

Altro progetto molto atteso e discusso, Ta’ang di Wang Bing si candida sin d’ora come uno dei film più importanti dei prossimi anni. La comunità Ta’ang, situata lungo la frontiera della Birmania e la Cina, vive un drammatico esodo a causa dei ripetuti scontri con l’esercito birmano. Stretti fra una frontiera e una guerra, si trasformano nell’ennesimo popolo senza terra. Il film, che può contare già su un centinaio di ore di girato, dovrebbe essere finalizzato per i primi mesi del 2016. Affronta una pagina buia della recente storia sudcoreana, la cosiddetta quinta repubblica, The Battle of Gwangju di Yi Ji-sang. Diretto con uno stile astratto e stilizzato, con gli attori che mimano l’utilizzo delle armi da fuoco invece del tutto assenti, il film è un omaggio viscerale alle vittime della repressione militare seguita al colpo di stato del 12 dicembre 1979 per mano del maggiore generale Chun Doo-hwan. In seguito alle proteste esplose nella città di Gwangju contro la chiusura dell’Università di Chonnam, l’intera cittadina si unisce agli studenti.

Per nove giorni, dal 18 al 27 maggio, studenti e popolazione civile tengono in scacco l’esercito. Repressa nel sangue, si sospetta che il numero delle vittime sia oltre 2000, la strage e lo sdegno che seguirono, aprono di fatto le porte alle elezioni democratiche del 1987. Film lunghissimo e ossessivo, improntato a un sentimentalismo al tempo stesso patriottico e anarcoide, con numerosi riferimenti alla comune di Parigi, incuriosisce per come reinventa la lezione di certo cinema politico giapponese (si pensa inevitabilmente a Kijo Yoshida) pur restando un oggetto fuori norma, eccessivo.

Restando in ambito scolastico, Reach for the Sky, di Choi Wooyoung, mette in luce il sistema iper competitivo del sistema scolastico sudcoreano. Pur strutturato in maniera narrativamente tradizionale, il film ha il merito di mettere in luce un meccanismo serrato e abbastanza spietato nel quale i risultati scolastici sono propedeutici all’inserimento nella società produttiva.

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Il cinema indiano si presenta teso fra passato, presente e futuro. E se un film comed Kothanodi di Bhaskar Hazarika, parlato in lingua assamese, ripropone per il pubblico di oggi quattro fiabe tradizionali incentrate sul tema della maternità, O Kadhal Kanmani di Mani Ratnam si offre come melodramma di formazione indirizzato a un’ipotetica giovane classe media tutta in divenire. Lui, tamil, progettista di videogiochi, lei studente di architettura e rampolla di una famiglia ricchissima, si amano e decidono di convivere per non danneggiare le loro rispettive possibilità sociali con il matrimonio e le inevitabili conseguenze che ne deriverebbero. Amore libero, insomma. Il film evoca chiaramente un mondo che esiste solo come sogno (utopia?) di una possibile, ideale classe dirigente «giovane» cui si chiede solo un minimo di rispetto della tradizione prima di andare avanti a realizzarsi nel mondo. Esempio lampante della gentrificazione di classe portata avanti da un certo cinema bollywoodiano, il film si rivela compiutamente nei lunghi titoli di coda animati che mostrano i protagonisti raggiungere il successo a Parigi (lei), a Hollywood (lui).

Accolto da un entusiasmo da stadio, Baahubali: the Beginning di S.S. Rajamouli, terzo campione d’incassi di tutti i tempi del cinema indiano, e primo film in lingua telegu a raggiungere un simile risultato, è un kolossal in piena regola. Proiettato nell’enorme spazio all’aperto del Mountain Cinema, il pubblico si è esaltato urlando il proprio apprezzamento di fronte alle prodezze di Baahubali/Shivudu (Shiva nella versione hindi), interpretato da Prabhas. Come in una versione psichedelica del cinema più estremo e decorativo di Cecil B. De Mille, riconfigurato alla luce delle evoluzioni digitali post-Matrix, ma conservando un fortissimo rapporto con la tradizione grazie a interpretazioni massimaliste (solo secondo il gusto occidentale, però) e fortemente teatrali, Baahubali: the Beginning è un’esperienza di cinema a suo modo estrema.

Film genuinamente primordiale nella caratterizzazione dei conflitti, nel quale i sentimenti sono tutti fondativi, la storia di Baahubali/Shivudu che riconquista il trono strappato al padre con l’inganno è di quelle che riportano il cinema a un candore delle origini dove Henry King e Douglas Fairbanks non hanno mai smesso di vivere. Dal versante del cinema di genere europeo, invece, si segnala la sorpresa britannica The Hallow di Corin Hardy, regista già candidato alla regia del remake de Il corvo, prodotto da Ed Pressman e benedetto dall’autore del fumetto James O’Barr. Boschi e fate maligne, argine estremo contro l’avanzare dell’odiata modernità.