Quest’anno sono stati banditi due importanti concorsi, uno per il reclutamento di 500 funzionari da assegnare al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (Mibact), e uno per l’assunzione su base triennale di 63.712 docenti per la scuola. Il governo ha sbandierato le due procedure di reclutamento come la prova della propria volontà di investire sulla cultura.

Nulla di più fuorviante. Da un lato, infatti, i posti messi a bando serviranno in molti casi a garantire soltanto l’ordinaria amministrazione o addirittura la mera sopravvivenza di certe strutture (come gli archivi di Stato e le biblioteche pubbliche); dall’altro, osservando il modo in cui si stanno svolgendo i concorsi, si evince con chiarezza quanto in realtà valgano per il nostro governo i beni culturali e la formazione dei giovani studenti: meno di zero.

Come molte selezioni pubbliche, anche il «concorsone» del Mibact, volto a reclutare diverse figure fra cui archivisti, bibliotecari, antropologi e storici dell’arte, ha già previsto e attuato una prima scrematura dei candidati mediante una prova preselettiva. Ma invece di organizzare quest’ultima con un metodo serio, basato sulla selezione dei curricula o sulla valutazione delle esperienze e delle conoscenze disciplinari dei candidati, si è pensato bene di ridurre il tutto a una competizione demenziale da telequiz.

Forse la frequentazione giovanile di Renzi con la «Ruota della fortuna» di Mike Bongiorno deve avere offerto al governo l’ispirazione, anche se in questo caso il modello di riferimento sembrerebbe essere stato il più antico telequiz «Lascia o raddoppia»: agli aspiranti funzionari del Mibact è stato richiesto infatti di mettere in sordina la propria intelligenza e le proprie competenze, e di coltivare esclusivamente la capacità mnemonica a breve termine e il più sterile nozionismo.

Cos’altro serviva, infatti, se non la capacità acritica di immagazzinare nozioni, per rispondere in 30 secondi a domande a risposta multipla estratte da una banca dati di quesiti resa pubblica qualche giorno prima della prova? Le conoscenze richieste dal «quizzone», legate per lo più al diritto e alla storia dell’arte, erano spesso banali o inutilmente minuziose, e pronte per essere dimenticate il giorno successivo alla prova.

È pensabile che un paese come l’Italia, ricco come nessun altro Stato di archivi, biblioteche, musei, aree archeologiche e opere d’arte, scelga con modalità da telequiz coloro che dovranno conservare e valorizzare il patrimonio culturale della Nazione? Evidentemente no.

Ma al peggio non c’è fine.

Lo spettacolo offerto dall’ultimo concorso a cattedra è ancora più sconcertante. La selezione avrebbe dovuto reclutare in tutta Italia 63.712 docenti, ma non potrà farlo perché più della metà dei 175.245 candidati, tutti rigorosamente abilitati, sono stati già bocciati alla prima prova, quella scritta.

In alcune regioni e per alcune classi di concorso si è assistito al paradosso del 100% di bocciature. Anche se le prove orali non si sono ancora concluse, si stima che per il prossimo anno scolastico circa 23.000 cattedre resteranno scoperte, e verranno assegnate a quegli stessi professori bocciati, richiamati in qualità di supplenti. Come è possibile che così tanti abilitati, certificati dalle università italiane, siano diventati tutti improvvisamente dei grandi somari?

Secondo il ministro Giannini e la stampa filogovernativa l’elevatissimo numero di bocciature è dipeso dalla scarsa preparazione dei candidati e dall’inadeguatezza dei percorsi abilitanti gestiti dalle università. Ma si tratta di una lettura disonesta, falsa e deformante, utile a giustificare quello che appare come il vero obiettivo del governo: decimare e umiliare i giovani insegnanti precari, anche in vista del fatto che probabilmente per molte classi di concorso i posti realmente disponibili saranno inferiori a quelli banditi.

Se prendiamo in esame la struttura della prova scritta sottoposta dal Ministero agli aspiranti docenti, appare chiaro che l’obiettivo del governo è stato quello di facilitare l’ecatombe. Ai candidati, infatti, è stato chiesto di rispondere in 150 minuti sia a sei domande a risposta aperta su argomenti vasti e spesso surreali, da declinare in chiave didattica, sia a diversi quesiti a risposta multipla in lingua straniera. Il tempo a disposizione per ciascun quesito, a conti fatti, era palesemente sottodimensionato: circa 15 minuti per domanda.

L’intera procedura era informatizzata (sorry, «computer based»), e del tutto inadeguata a supportare un concorso a cattedra.

Tutti i partecipanti alla prova, inclusi gli ammessi all’orale, parlano di un compito concepito in modo squilibrato, impossibile da svolgere in maniera soddisfacente. Una sorta di «talent show» per bravi dattilografi. Chi ha superato la prova scritta, e magari anche l’orale, non si sente un vincitore. Solo un fortunato che è riuscito a sfuggire alla mannaia di bocciature indiscriminate e possibilmente anche casuali.

Le commissioni, costituite a livello regionale, si sono prestate a questa farsa, applicando in maniera arbitraria e spesso scriteriata griglie di valutazione del tutto inadeguate. L’esito disastroso che è sotto gli occhi di tutti, probabilmente, è dipeso anche dalla scarsa preparazione di chi doveva giudicare.

L’approssimazione e la fretta con cui è stato allestito il concorso, insieme alla mancanza di un adeguato compenso per i commissari, hanno probabilmente imposto agli uffici scolastici regionali di raccattare per la correzione degli elaborati molti docenti non all’altezza della situazione, forse solo desiderosi di un po’ di visibilità e di micropotere.

Si tratta in ogni caso del primo concorso a cattedra in cui candidati mediamente molto preparati (tutti abilitati, e molti con dottorati, pubblicazioni scientifiche ed esperienze all’estero) sono stati eliminati senza nessuno scrupolo da colleghi tendenzialmente meno formati di loro.

Di fronte a un simile scempio il ministro Giannini non dovrebbe fare altro che dimettersi. Ma è inutile illudersi, il gesto non sarebbe coerente con l’arroganza di questo esecutivo e del suo capo.

Probabilmente una vittoria del «no» al prossimo referendum costituzionale non sarà sufficiente a liberare Palazzo Chigi dal peggior governo dell’Italia repubblicana.

Renzi sappia tuttavia che in quell’occasione avrà contro di lui la parte migliore dei docenti, degli studenti e delle famiglie che vivono dall’interno la scuola italiana: ossia l’unica vera «buona scuola» esistente.