La convention destinata a finire nei libri di storia, per aver incoronato la prima donna nominee alla presidenza degli Stati Uniti, si è chiusa, come da tradizione, nel clima festoso dei palloncini colorati, della musica e dei balli e del c’ero anch’io. L’iniezione d’entusiasmo che ci vuole per attraversare i cento e uno giorni che mancano al fatidico 8 novembre e vincere. Contro un avversario che, secondo i parametri classici della politica, andrebbe considerato una tigre di carta che eccita e incanta le folle, certe folle, ma non riesce poi a portarle con sé alle urne. Se non fosse che i sondaggi, invece, lo danno vincente, con un ampio margine, se si votasse oggi.

E non parliamo degli scommettitori delle corse dei cavalli come appaiono spesso i sondaggisti che dispensano numeri basati su campioni risicati di elettorato, ma di Nate Silver, il genietto delle previsioni che tutti ascoltano col massimo rispetto. Il suo «modello» – now-cast – che non prende in considerazione solo i sondaggi, attualmente assegna a Trump il 45,4 per cento del voto popolare, contro il 45,1 per cento Clinton e, in termini di voti dei collegi elettorali 285 a Trump e 252,6 a Clinton. È la prima volta che now cast prevede Trump vittorioso. Un esito dovuto anche al suo successo – secondo Silver – negli stati determinanti considerati in bilico, Florida, Pennsylvania, Ohio, North Carolina, Iowa, Nevada e New Hampshire. Ancora più vistoso il distacco in termini di «probabilità» di vittoria: Trump è al 57.5%, Clinton al 42.5 per cento.

Come prendere queste cifre? Si possono mettere in contrasto con quelle di altri sondaggi, che dicono l’esatto contrario, come il Wall Street Journal che assegna un ampio vantaggio a Hillary in Pennsylvania. Ci si può anche aspettare un «rimbalzo» positivo per Hillary dopo la convention di Filadelfia. Ma, a parte il fatto che Silver ne tiene conto nei suoi calcoli, pure ignorando del tutto i numeri del momento, è evidente che il clima sembra proprio quello disegnato dagli inquietanti grafici di Silver.

Così, dopo l’incoronazione, la corsa di Hillary verso la presidenza sembra fatalmente destinata a diventare una rincorsa continua, dietro un avversario in vantaggio, e che sembra accumulare nuovo vantaggio anche in virtù dei suoi errori evidenti, che tali però non appaiono ai suoi sostenitori e che, anzi, dai suoi passi falsi, sembrano anche galvanizzati.
Hillary sa che in certi settori elettorali, anche storicamente democratici, della classe lavoratrice, fa fatica a trovare voti e non ha altra strada che riuscire a portare alle urne, l’8 novembre, il massimo numero possibile di elettori democratici delle aree urbane, i giovani, le minoranze, le donne, gli LGTB, e cercare di fare breccia nell’elettorato cosiddetto indipendente.

Il suo discorso a Filadelfia, che non sarà certo ricordato come il migliore degli interventi ascoltati nei quattro giorni della convention, era appunto confezionato non per entusiasmare, ma per andare a colpire due obiettivi essenziali, con l’intento di portare dalla sua parte gli elettori democratici riluttanti e gli elettori in bilico.

È stato, il suo, un discorso che – a cominciare dall’omaggio iniziale a Bernie Sanders – ha incorporato molto del pensiero sanderista, sul fronte sociale ed economico, e ha insistito con particolare fermezza sul pericolo rappresentato da un’amministrazione guidata da un comandante in capo come Donald Trump, in contrasto con la guida esperta e responsabile che la sua presidenza invece garantirebbe. Un messaggio rivolto a quella parte dell’elettorato centrista che non ha ancora deciso chi votare e che può essere attratto dall’idea di cambiare spartito alla Casa Bianca, dopo otto anni di musica democratica, ma non al punto di desiderare di ballare la danza di un istrione volubile e imprevedibile.

Hillary fa politica da troppo tempo e sa che queste sono le due carte che può mettere sul tavolo. Ha la testa e la cultura politica per potersi spostare, se vuole, a sinistra, e ha l’indole e la preparazione per poter accreditarsi presso l’elettorato centrista che non vuole avventure. La sua capacità sarà quella di non risultare ambivalente (e dunque non autentica, come tante volte le è stato rimproverato) e neppure ondivaga (e dunque opportunista, l’altra accusa più frequente).

La sfida con Trump graverà soprattutto sulle sue spalle. Ma indubbiamente conterà molto anche il gioco di squadra insieme con politici come Barack e Michelle Obama, Bill, Joe Biden, Tim Kaine, Nancy Pelosi, ognuno dei quali ha l’esperienza per fare una campagna elettorale d’attacco come richiede il momento. Senza contare le nuove leve, che hanno fatto della convention democratica un congresso di notevole livello, come ormai non si vede più nelle assise dei partiti europei.

Sarà, appunto, una squadra che metterà a nudo l’inesistenza di una squadra avversaria, essendo Trump un combattente solitario e isolato, lasciato solo dal suo partito, anzi osteggiato da una parte consistente e potente dell’establishment repubblicano. Questo «solo contro tutti» dà la misura dell’eccezionalità di quanto accade in America. Finora è stata la sua forza, l’energia che l’ha portato fin qui, dandogli lo status del vero gamechanger, di colui che, inviso all’establishment, cambia il gioco, come molti chiedono e invocano. Se questo schema terrà ancora nei prossimi cento giorni, l’America rischia davvero di trovarselo sulla poltrona di Obama.