A Romano Prodi mi legano amicizia e politica, un lungo sodalizio sotto le insegne dell’Ulivo. Ci siamo divisi sul voto al referendum costituzionale. Romano, pur giudicando la riforma «modesta» e in difetto di «chiarezza e profondità», ha evidentemente privilegiato l’«etica della responsabilità» in rapporto alle paventate conseguenze sistemiche di una bocciatura di essa. Ma, nel motivare il suo sì critico e sofferto, ha messo in fila rilievi critici di peso sull’attuale corso politico sui quali merita tornare.
Li rammento: il dovere di riscrivere la legge elettorale sulla quale il governo pose addirittura la fiducia e che era stata pensata come organicamente connessa alla riforma costituzionale (come ha più volte certificato D’Alimonte, ispiratore dell’Italicum); la impropria politicizzazione del confronto referendario («improvvida sfida») che ne ha esacerbato i toni e il carattere divisivo; l’esercizio di una leadership «esclusiva, solitaria ed escludente»; la narrazione presuntuosa e caricaturale secondo la quale il buon governo e la ricerca di una nuova sinistra di governo comincerebbero nel 2014, dopo trent’anni tutti da buttare («ignorando e persino negando» gli sforzi di chi è venuto prima). Una legittima e doverosa messa a punto, quest’ultima, da parte del padre dell’Ulivo nonché premier di governi nei quali figuravano Ciampi, Napolitano, Andreatta, Elia, Padoa Schioppa, Mattarella, Amato, Flick. Che forse non sfigurano se paragonati alla squadra del governo dimissionario.

Ora che il referendum è alle nostre spalle merita tornare su osservazioni che investono il profilo del Pdr (il partito di Renzi, copyright di Diamanti), diverso dal Pd come fu pensato. Seguendo l’ordine dei quattro rilievi prodiani. Primo: certo, l’Ulivo patrocinava bipolarismo e democrazia governante, la stabilizzazione e la razionalizzazione di una democrazia competitiva e dell’alternanza tra un centrosinistra e un centrodestra che si riconoscessero reciprocamente legittimati. L’opposto del «partito della nazione» che occupa il centro e alternativo alle forze populiste. Una sorta di democrazia di nuovo bloccata non più dal fattore K (comunismo), ma dal fattore P (populismo). Quasi una regressione alla casella numero uno della prima Repubblica. Secondo: nelle citatissime (selettivamente) tesi dell’Ulivo era scolpita la distinzione tra regole (costituzionali ed elettorali) «da scrivere insieme» e limpida, aperta competizione politica. Si riteneva che solo la condivisione delle regole a monte (l’opposto di ciò che si è fatto) potesse garantire una democrazia competitiva non lacerante. Terzo: una leadership, un partito, una politica inclusiva verso il centro ma anche verso sinistra, con un Pd chiaramente posizionato al centro del vasto campo del centrosinistra e alternativo al centrodestra. «Uniti per unire» fu lo slogan dell’Ulivo. In senso orizzontale tra le forze del centrosinistra e in senso verticale valorizzando la mediazione e il dialogo con le forze sociali. Non la «disintermediazione». Quarto: apertura al nuovo non come smemorato, superficiale, supponente nuovismo. L’Ulivo mirava a operare una sintesi nuova e originale delle culture politiche democratiche e riformiste che hanno forgiato la storia italiana ed europea, non recidendone le radici dentro una politica affidata all’occasionalismo e a un virtuosismo corsaro privo di una riconoscibile cifra ideologica e di una conseguente opzione di parte politica, quella la cui bussola è l’uguaglianza e quindi non subalterna all’establishment.
A giudicare dalla prima reazione di Renzi al referendum, condensata nello slogan «ripartire dal 40 per cento» che lui si intesta tutto intero, e dalla elusione di una riflessione autocritica su una sconfitta strategica, l’impressione è che semmai si rafforzi la suggestione del «partito personale» e/o del «partito della nazione». Un altro passo verso una prospettiva diversa dal Pd ulivista. *deputato del Pd