Con i suoi commenti sulla Corte costituzionale, il ministro Padoan ha perso una ottima occasione per tacere. E dire che avevamo pensato di lui che – rispetto ai suoi sboccati e canterini colleghi e colleghe di governo – mostrasse un apprezzabile self restraint. Quasi uno statista.
Anzitutto, è assolutamente contrario alla correttezza e al buon gusto istituzionale, che un esponente del governo censuri la Corte costituzionale, per qualsiasi motivo. Così come lo sarebbe se censurasse il Capo dello Stato.

Un governo ha un indirizzo politico sostenuto da una maggioranza. Parla per atti formali, per i quali può essere assoggettato a forme di responsabilità politica, collegiale o individuale.
La Corte è organo neutrale e di garanzia, sottratto per definizione al circuito politico maggioritario, e geneticamente contrapposto al legislatore. Esiste appunto per cancellare dall’ordinamento le leggi perché lesive della Costituzione. Male farebbe a dire che il governo ha sbagliato, al di fuori della stretta e formale motivazione giuridica della sentenza. Stesso riserbo si richiede al governo, che è chiamato ad attuare le sentenze, non a criticarle.
Qui è esattamente il punto. Questo governo tende a dimenticarsi della Costituzione, e in specie a seppellire le sentenze della Corte nei cassetti, tamquam non essent. L’Italicum grida vendetta. E ora si aggiungono le pensioni e – come in altra occasione avremo modo di vedere – la scuola. Stiracchiando la verità oltre misura.
Padoan dice che la Corte avrebbe dovuto tener conto dell’impatto della sent. 70/2015 sui conti pubblici. Ma non vede che in realtà l’ha fatto? Per il domani, la Corte ha lasciato spazio al legislatore per una modulazione anche ampia dei trattamenti pensionistici in ragione delle esigenze di bilancio. Forse persino troppo ampia. Non poteva fare altrettanto per ieri, dal momento che non può modulare riduttivamente per il passato gli effetti di una sentenza di accoglimento in ragione delle condizioni soggettive dei destinatari della norma.

Quando una legge scompare perché illegittima, non è la Corte a determinarne le conseguenze, ma il regime giuridico delle sue pronunce. Per il passato il mancato adeguamento a causa della norma dichiarata incostituzionale non era per alcuni più o meno illegittimo che per altri. Era illegittimo e basta. Né il diritto di alcuni era più o meno diritto che quello di altri. Quindi per il passato si recupera ciò che non era stato – illegittimamente – corrisposto. Se non lo fa il legislatore partiranno ricorsi e lo faranno probabilmente i giudici. Per il futuro si detta una nuova e diversa disciplina.

L’esternazione di Padoan mostra di essere una giustificazione per la mancata osservanza della sentenza della Corte da parte del governo. Con l’aggravante che non solo si dice alla Corte quel che avrebbe dovuto decidere, ma si afferma anche la necessità di un “coordinamento”. E che significa, esattamente? Che la Corte avrebbe dovuto chiedere il permesso? Che era necessaria una previa intesa? Che al ministro dell’economia dovrebbe riconoscersi il potere di porre un tetto di spesa vincolante per il giudice delle leggi?
In ogni caso, il concetto di coordinamento implica una co-decisione. Ed è qui che l’esternazione di Padoan assume un senso oggettivamente intimidatorio. Padoan ha dato un buon esempio di come a Palazzo Chigi si intenda il governare. L’esecutivo decide, e gli altri si accodano. Se non lo fanno, sono bastonate mediatiche, che vanno dallo sberleffo, al rabbuffo, al ceffone (s’intende, figurato). Il metodo l’abbiamo già visto, soprattutto nel percorso delle riforme. È stato usato persino con i presidenti delle assemblee parlamentari, con il parlamento tutto, con le minoranze interne, e in genere con ogni forma di dissenso. Ora, esplicitamente, con la Corte.
In realtà con le riforme in atto, dalla Costituzione alla legge elettorale, dalla scuola alla Rai, e probabilmente anche – speriamo di no – con la scelta di ben tre giudici costituzionali, si vuole consolidare il trend. E’ questa l’Italia che si prefigura.
Padoan ci ha definitivamente convinto. Il governo rimanga pure sulle poltrone, se proprio vuole. Ma le sue riforme e per larga parte le sue politiche sono proprio da buttare.