Scritto a due anni dalla morte di Chopin, avvenuta a Parigi nel novembre del 1849, il ritratto che Franz Liszt ci consegna del compositore polacco ha un enorme valore testimoniale e si lascia apprezzare, nonostante la prosa eccessiva e mirabolante. Chopin (Castelvecchi, pp. 140, euro 16,50) – come non manca di notare l’estensore della prefazione, il pianista Michele Campanella, raffinato interprete e conoscitore del mondo lisztiano – contiene giudizi illuminanti e utilissime notizie sul contesto psicologico nel quale l’immaginario sonoro di Chopin andò dispiegandosi. Frutto di un’ammirazione sincera, dietro la quale si nasconde, qua e là, la rivalità tra due giganti della musica romantica, il ricordo del musicista schivo, lontano da qualsivoglia ideologia estetica e culturale, dedito alla causa patriottica, confinato negli affetti familiari (al di là della tumultuosa storia d’amore con George Sand, cui Liszt dedica non poche pagine accorate), ha il merito di non consegnarci facili mitologie.

Si intuisce come Chopin, anzitutto per via della sua precaria salute fisica, fosse estraneo allo scoppiettare delle discussioni romantiche in materia di musica: a differenza di Schumann, che, dopo aver esordito come poeta, si era impegnato nell’attività di critico musicale e di chiarificatore di certe istanze estetiche, e a differenza dello stesso Liszt, che in sé sommava il concertista, il compositore, il direttore d’orchestra e l’organizzatore culturale, Chopin – che si esibiva raramente e preferiva l’intimità del lavoro compositivo – restò fedele a una «volontaria rinuncia ai successi folgoranti», che certo nascondeva «un malcontento interiore».

Si sarebbe dovuto attendere Alfred Cortot per vedere chiarite le intuizioni di Liszt, e per ragionare meglio sulla costruzione del personaggio di Chopin, spesso dipinto come massimo esemplare romantico: a quella stagione, e a quel contesto culturale, il musicista polacco assistette da spettatore periferico, preferendo la strada della ricerca individuale, che certo gli permise un’evoluzione singolare, persino ostile a certe convenzioni (delle quali pure si nutriva, specie nell’attività didattica) – ostilità che Liszt non manca di riconoscere (Chopin è autore di «raffinatezze armoniche inaspettate, e fino ad allora mai sentite»). Il libro di Liszt, del resto, sembra avere come obiettivo l’individuazione del carattere musicale di Chopin e il suo legame con quella particolare psicologia, che solo un sodale poteva conoscere. Invano il lettore troverà una sorta di guida all’ascolto o una parabola del carattere progressivo dell’opera di Chopin: non è un caso che, insistendo sulla centralità dell’immaginario patriottico (Chopin, lo ricordiamo, era un esule, seppure adottato da una cultura che, per ragioni familiari, conosceva bene), Liszt si fermi di più sulle mazurke e sulle polacche, a volte lasciando trapelare un giudizio poco accomodante sulle opere più formalmente vicine alla tradizione, come le sonate per pianoforte (ma davvero così prossime a un linguaggio blasonato, verrebbe da chiedersi?).

Il motivo di queste scelte sta nel fatto che poco tempo separa la stesura di questo commosso ricordo dalla morte dell’amico. Significative, infine, le considerazioni che il compositore ungherese svolge a partire dalla musica di Chopin. Liszt (se è davvero l’unico autore di questo testo: Campanella, nella prefazione, avverte della vicinanza di Carolyne Sayn von Wittgenstein) dimostra una versatilità culturale sorprendente: il discorso tocca argomenti di estetica, considerazioni musicali profondissime, lievissime analisi psicologiche che legano il vissuto alle opere, la poetica alle ragioni del corpo. Il ritratto prende vita e offre utilissime chiavi di lettura, mentre la cronaca delle ultime ore di vita del musicista polacco chiudono, con devozione e ammirazione, il cerchio di un ritratto certamente sincero e sentito.