Nella notte di lunedì a Diyarbakir è circolata la voce della fine del coprifuoco, dichiarato ormai da quattro giorni nel capoluogo del Bakur, il Kurdistan settentrionale, sottoposto al controllo turco. Le notizie in questo senso si sono rincorse per tutta la giornata. Ieri mattina appariva chiaro che la fine del blocco di polizia ed esercito nel quartiere centrale di Sur era limitato all’accesso in città, la Porta della Montagna.

In una settimana tre cortei sono arrivati fin qui, nelle immediate vicinanze delle millenarie mura nere in basalto patrimonio dell’Unesco, provando a sfidare il coprifuoco e denunciando nel contempo le responsabilità del governo nella strage di Ankara. «Katil Erdogan» («Erdogan assassino») è stato infatti uno degli slogan più gridati e non sono mancate canzoni di resistenza partigiana kurda che si sono alzate dalla piazza e nei momenti di silenzio del corteo.

Gli scontri della giornata di ieri sono proseguiti da dopo l’arrivo del corteo, alle porte della città vecchia, per tutta la notte. Una eco di scoppi in lontananza ha ricordato la guerra continua che sta investendo la città e il Kurdistan: una guerra tra Kurdistan e governo turco.

Blindati pattugliano le strade, carri armati nelle zone del coprifuoco sparano sulle abitazioni, le forze speciali intervengono con l’obiettivo di uccidere civili, cecchini sono appostati sui tetti degli edifici più alti, strategici per poter colpire gli abitanti dai vecchi ai bambini che girano per le strade del loro quartiere. Sono un centinaio i fermi di questi giorni tra cui un reporter di Reuters, strattonato in piazza, e altri stranieri rilasciati in nottata. La denuncia più forte che la popolazione civile ha urlato in questi giorni in manifestazioni, sit-in e conferenze stampa è sulle responsabilità del governo turco. La cosa più impressionante però è l’assoluta assenza di bandiere di partito, come segno di lutto. «Non ce n’è bisogno», ci hanno detto le persone in strada. In altre parole, il popolo kurdo è uno e difende le stesse ragioni.

Anche ieri si sono verificati scontri diffusi nelle zone di Kosuyolu Parki, Ofis, Baglar e Sur. In quest’ultimo ancora non è chiaro – per l’impossibilità delle comunicazioni a causa del durissimo coprifuoco – stabilire il numero delle vittime. Spostandosi per le vie delle città, l’odore acre e il fastidioso fumo, invisibile agli occhi, dei lacrimogeni, sono stati per ore una costante. Passeggiando per le strade, capita di sentire detonazioni di granate, che ben presto persone comuni hanno imparato a riconoscere e distinguere; nonostante questo, ad ogni colpo, per un attimo, le teste si girano insieme, per provare ad indovinare la direzione degli spari.

Attraversando il quartiere di Ofis, siamo passati dal punto di ritrovo degli studenti ai molti condomini-fortino delle forze di polizia e di sicurezza che il governo ha edificato in alcuni punti della città. Non è stato difficile notare l’accerchiamento da parte della polizia al palazzo del Dtk (Congresso democratico del Popolo) dove 501 esponenti di cooperative, centri culturali, case del popolo, non riconosciuti dallo stato, si ritrovano in un’assemblea che discute e traduce in pratica i principi dell’autonomia democratica di Ocalan. La polizia non permette l’accesso al palazzo e un assembramento di protesta fuori viene presto caricato con lacrimogeni.

Gli occhi bruciano, le narici cominciano a chiudersi, i mezzi della polizia girano con il portellone aperto e il mitra spianato. Qui sembra che le persone non ci facciano più caso, ma scambiando poche parole con loro è chiaro che invece i kurdi vogliono un altro modo di vivere. I kurdi si sono già messi in marcia.
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