anticipazioni

Sotto la definizione di crimini dei potenti, rientra un ampio ventaglio di condotte, da quelle economiche, come la bancarotta, l’aggiotaggio, il riciclaggio, la violazione delle norme ambientali e di sicurezza, a quelle politiche, quali il genocidio, gli abusi compiuti dalle forze dell’ordine, le manovre occulte di potere. Questi comportamenti, lesivi della convivenza civile, non sempre suscitano il panico morale e la reazione dell’opinione pubblica, che preferisce concentrarsi sulla criminalità di strada o su tipologie criminali che colpiscono l’immaginario, come la pedofilia e i serial killer.
Vincenzo Ruggiero nel suo ultimo lavoro, Perché i potenti delinquono (Feltrinelli, pp. 208, euro 18), suggerisce che la mancanza di interesse verso i crimini commessi dai potenti va messa in relazione con una mancanza di una spiegazione eziologica dei loro comportamenti criminali. La criminologia, di cui l’autore è uno dei massimi esponenti contemporanei, denota il limite congenito di concentrarsi sul nesso tra condotte criminali e deprivazione: la mancanza di una famiglia, di un reddito fisso, la carenza di istruzione e di legami significativi, si trasformano, sotto questo aspetto, nelle cause della criminalità. Ai potenti soltanto lo studioso edwin Sutherland dedica una certa attenzione, ma all’interno di una specifica «criminalità dei colletti bianchi». Per colmare questa lacuna, Ruggiero prova ad andare oltre la criminologia, inserendosi nel dibattito filosofico, politico e sociologico della modernità per fondare una eziologia del crimine fondata sull’abbondanza.

Il percorso tracciato dall’autore, si snoda in tre direzioni. In primo luogo, bisogna analizzare la contraddizione tra forza e consenso. I potenti, siano essi uomini di affari o carismatici leader politici, emergono spesso e volentieri da violenti conflitti economici e politici, come quelli alla base del capitalismo moderno. Muovendo dalla loro posizione di forza, si pongono a fondamento di un ordine sociale plasmato ad immagine e somiglianza dei loro interessi, mirante a riprodurre gli stessi rapporti sociali che pongono i gruppi sociali subalterni in condizioni sfavorevoli e a legittimare le loro condotte prevaricatrici e oppressive perpetrate ai danni del corpo sociale. Tuttavia, avverte Ruggiero, la lettura marxiana risulta insufficiente a inquadrare le condotte criminali dei potenti, nella misura in cui, pur avvertendo il potenziale creativo dei robber barons capitalsitici, non ne coglie la capacità di legittimarsi attraverso la creazione di consenso. A questo scopo, tornano più utili Hannah Arendt e Michel Foucault. La prima quando evidenzia la capacità da parte dei potenti di creare un apparato legislativo a loro immagine e somiglianza e di allargare la loro auto-legittimazione al resto della società. Il secondo quando inquadra il potere come il prodotto di una relazionalità diffusa, che si riproduce dal basso verso l’alto e viceversa.

Il primo esempio concreto che ci viene in mente riguarda le fortune di Silvio Berlusconi, che non sarebbe rimasto in auge tanto a lungo senza la produzione di una verità che permetteva ad ampi strati sociali di identificarsi nella sua figura.

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In secondo luogo, bisogna focalizzare l’analisi sul contrasto tra la razionalità rispetto allo scopo e quella rispetto al valore, che, da Max Weber in poi, è stata individuata come l’elemento connotante l’azione sociale, e in particolare quella degli attori economici. Per quanto ogni comportamento umano è impregnato di elementi valoriali, che si riflettono nelle leggi, nelle dichiarazioni di intenti e nei protocolli etici, la molla del capitalismo è costituita, in ultima analisi, dalla ricerca del profitto, vale a dire di quegli spiriti animali che Adam Smith poneva al centro della crescita delle nazioni.

L’egoismo individualista, secondo i liberali, finisce sempre, in un processo a lungo termine, per creare vantaggi a tutta la collettività. Si rivela insensate, di conseguenza, ogni tentativo di criminalizzare, stigmatizzare o limitare la ricerca del massimo dei benefice da parte del singolo, in quanto si finirebbe per mettere a rischio la crescita della comunità stessa. È proprio in nome di questi interessi che oggi si accetta il deterioramento dei diritti e delle condizioni dei lavoratori, contrabbandando per strumenti di crescita le sistematiche violazioni dei diritti.

Infine, nota Ruggiero, la riproduzione dei comportamenti criminali dei potenti non si darebbe senza l’esistenza di un livello orizzontale di complicità, laddove si formano quelle reti che consentono non soltanto di elaborare i comportamenti devianti, ma anche di trasmetterli, giustificarli e diffonderli. Si torna nuovamente alla questione dei rapporti forza: se i potenti dispongono di una compattezza che allo stato consente loro di creare consenso sociale attorno alle loro condotte, lo stesso non si puo’ dire dei gruppi subalterni, che si trovano a combattere col mancato riconoscimento della loro soggettività. È in questa direzione che bisogna lavorare.