Disastro d’infanzia, catastrofe e altre rovine tra cui quella di non saper dare un nome a un male che viene spesso derubricato facilmente sotto un unico e inesatto costrutto. Questo e molto altro racconta Annie Leclerc in un libro senza scivolamenti semantici: Paedophilia e altri sentimenti (Malcor D’, pp. 109, euro 14; verrà presentato oggi, alle ore 17, presso la Sala Angioy della Provincia di Sassari).

Tradotto da Luciana Piddiu e Giovanna Stancanelli, è un volume postumo ritrovato tra le carte della filosofa e femminista francese da Nancy Huston, sua amica che lo ha dato alle stampe nel 2010 per Actes Sud. Dalla sua centralità nel movimento femminista francese dopo il Maggio ‘68 alla sua vicinanza con Simone De Beauvoir e la redazione di Temps Modernes fino alla rottura, nel 1974, in seguito alla pubblicazione di Parole de femmes, il pensiero esigente di Annie Leclerc appare scintillante. Acume poetico e politico che non è arrivato fin qui come avrebbe dovuto, per venti anni ha tenuto corsi di scrittura nelle carceri parigine, dando poi seguito a ulteriori interventi e libri come Le Mal de mère (1986).

Gioia di stare al mondo, ogni sua riga ne restituisce il rilievo, comprese quelle di Paedophilia e altri sentimenti, corredato dall’ottima prefazione di Lea Melandri che introduce il testo in maniera esemplare nei punti più caustici. Anche in questo caso, come per i precedenti suoi volumi, l’argomento trattato da Leclerc la riguarda direttamente. Passando dalla prima alla terza persona, per poi dare d’improvviso del tu a chi legge, si tratta di una narrazione imperfetta e straordinaria attraverso la lingua dell’infanzia.

Per raccontare l’abuso subito, Annie Leclerc ridiscende con coraggio, lucidità nella sua stessa infanzia, insieme a una capacità di scomposizione storica, emotiva socio-politica e filosofica della pedofilia. Racconta quindi il tempo franto di un silenzio vertiginoso nel momento in cui la sessualità di un adulto si impone sulla libertà e inermia di un bambino o bambina. La promessa di crescita e di parola che viene spezzata, questo «sapere» dell’infanzia sul baratro dell’umano – in cui Leclerc non annovera solo chi compie atti espliciti ma anche chi è ossessionato a vario titolo da bambini e bambine – attiene all’innescarsi della vergogna dal momento in cui un adulto decide di compiere atti sessuali nei confronti di infanti. Il silenzio che ne deriva è tuttavia «il nettare dei lupi» e può durare una vita intera: «una povera sottomissione triste e arresa alla forza raddoppiata dell’adulto, del maschio prestigioso, del libertino che si afferma senza paura né rimprovero; uno squallido terrore di fondo, una debolezza che infragilisce, un’onta vergognosa, un mutismo che spegne ogni possibile parola. È il silenzio del bambino aggredito sessualmente».

Eppure niente è irrimediabile, l’esercizio di Leclerc ne è la prova vivente, è riuscita a stanare parole impreviste. Nonostante ci si scopra davanti a una sovversione dell’ordine del mondo, di un’infanzia sottratta alla presa di parola e la lingua bambina possa impedirsi e deflagrare nel segno di un mutismo che raggela. Nonostante la «legge di benevolenza» degli adulti per i bambini dovrebbe fare un tutt’uno con l’ordine del mondo, sono gli stessi bambini che decidono di rompere il silenzio.

È così che Annie Leclerc consegna una narrazione niente affatto scontata, urticante e al contempo di forza rara che ha il pregio di farsi leggere con la semplicità di chi sa di sé quando rende parlante l’abisso. Leclerc ha trovato un lessico per qualcosa che non è solo la mostruosità che lei stessa ha subito ma l’ossessione socio-politica verso una pulsione di morte di cui grondano alcune rappresentazioni che hanno autorizzato e sdoganato veri e propri atti di divorazione.

È in tal senso, e senza alcun intento moralistico (del tutto assente nel volume), che si attraversano i discorsi sottesi alle fiabe di Perrault, così come alla teoria dell’homo homini lupus per cui «dato che i divorati non hanno generalmente voce in capitolo, i fanfaroni parlano per loro». Annie Leclerc ci insegna invece che niente è indicibile, neppure il disastro, perché «i mezzi per pensare l’impensabile li abbiamo». Usiamoli allora con cura. E con amore.