Il krimi, il poliziesco tedesco, è tra i protagonisti dell’edizione di quest’anno della Buchmesse di Francoforte. Tra gli autori più attesi e celebrati dalla stampa tedesca si segnala Friedrich Ani, 58 anni, bavarese, figlio di madre tedesca e padre siriano, già cronista giudiziario della Süddeutsche Zeitung e autore, oltre che di una ventina di romanzi di grande successo, di libri per ragazzi, raccolte di poesia e sceneggiature per la tv. A lui si deve la creazione del detective Tabor Süden, già commissario della polizia di Monaco che da quando si è ritirato indaga esclusivamente sui casi di persone scomparse, e di cui l’editore Emons, che vanta una apprezzata collana di gialli tedeschi, sta pubblicando le inchieste nel nostro paese.

Dopo Il caso dell’oste scomparso e La vita segreta esce in questi giorni M come Mia (Emons, pp. 304, euro 13,50), un romanzo di grande attualità che scava negli ambienti del neonazismo e nelle personalità degli estremisti bruni.

«M come Mia», è stato scritto nel 2013 mentre a Monaco si apriva il processo contro la «Nationalsozialistischer Untergrund» (Clandestinità Nazionalsocialista, Nsu) i terroristi responsabili di una decina di omicidi razzisti. Si è ispirato a quella vicenda?

Solo in parte. Ho seguito il processo sui giornali e attraverso l’Nsu-watch, un sito che è stato creato dalle associazioni anti-fasciste e anti-razziste per raccogliere informazioni su quei terroristi e per documentare le azioni della magistratura nei loro confronti. Però certo, a Monaco quel processo ha avuto un’eco molto vasta, anche perché i neonzisti sono da sempre piuttosto attivi in città e uno dei loro rappresentanti siede anche nel consiglio comunale.

L’unica sopravvissuta della Nsu che è stata processata, i suoi complici si sono suicidati prima dell’arresto, è una donna, Beate Zschäpe, e anche il suo romanzo riflette sul ruolo crescente delle giovani neonaziste. Un fenomeno sottovalutato?

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Penso proprio di si. Il punto è che per questa via si tende a considerare gli ambienti bruni come se fossero formati solo da attivisti violenti, mentre invece dietro a costoro sono spesso attive nella società delle reti molto più articolate. Il caso di Zschäpe non è isolato, tra i neonazisti ci sono molte donne. Intervengono negli asili, nelle scuole, organizzano iniziative per le famiglie e hanno funzioni determinanti nei campi estivi come nelle nuove comunità rurali di estrema destra che stanno sorgendo nel paese. Se vedete le foto di questi campi vi accorgerete di quante donne siano coinvolte, di come siano loro a inquadrare i più piccoli, a guidarli nei canti collettivi intorno al fuoco o nelle cerimonie «tradizionali».

L’altro aspetto del suo romanzo riguarda le possibili complicità di cui godrebbero i gruppi neonazisti. Un tema che aveva già sollevato oltre 15 anni fa in «German Angst» (Paura tedesca). La situazione è tutt’ora così allarmante?
Senza dubbio. All’epoca sottolineavo come la Germania fatichi a fare i conti con se stessa. Un clima che si esprime proprio nella scarsa lotta che viene condotta contro gli estremisti di destra. Prima che emergesse il caso della Nsu, il ministero degli Interni aveva annunciato importanti stanziamenti su questo terreno, ma dati gli esiti, vale a dire il ruolo non chiaro giocato proprio dagli inflitrati della polizia in tale gruppo, viene da chiedersi se quei soldi non siano serviti che per comprare della nuove macchine del caffè per gli uffici dell’intelligence.

C’è poi il contesto in cui avvengono le violenze razziste. Lei è figlio di un medico siriano emigrato in Germania molti decenni orsono, come definirebbe la condizione dei tedeschi che hanno origini straniere?

Come si è visto nel corso degli ultimi tempi con le reazioni negative all’arrivo dei rifugiati siriani, le cose siano cambiate poco e temo solo in peggio. Malgrado mio padre sia arrivato che era giovane e si sia insediato come medico della mutua in una piccola località, è rimasto per molti versi uno straniero per tutta la vita, non è mai stato accettato fino in fondo malgrado come dottore fosse molto popolare. Non si può certo dire che tutti i tedeschi siano xenofobi, al contrario, però è facile che se arrivi dalla Turchia o dal Medioriente ci sia sempre qualcosa che in Germania ti fa sentire diverso e straniero anche dopo decenni che vivi in questo paese.

Lei è considerato come uno dei maggiori autori del poliziesco tedesco, ma le indagini di Tabor Süden sembrano differenziarsi dallo stile più diffuso nel paese, quasi scaturissero prima di tutto da una sorta di indagine su stessi, è così?

Durante gli anni passati nella polizia di Monaco, Süden ha imparato che spesso basarsi esclusivamente sui dati che sono stati raccolti non è sufficiente per risolvere un caso. Bisogna per certi versi anche avvicinarsi al mondo interiore di chi ha compiuto un determinato crimine per tentare non solo di comprendere cosa sia accaduto davvero, ma anche ciò che lo ha determinato, reso possibile.
Da questo punto di vista, lui mette sempre in gioco emotivamente anche una parte di sé per smascherare qualcuno e risolvere un caso. C’è chi ha scritto che io avrei rivoluzionato per certi versi il giallo tedesco proponendo questa chiave psicologica al crimine, diciamo che semplicemente non sono attratto dai riferimenti alle nuove tecnologie o al gusto macabro che caratterizza molti libri di questo genere.