Lo stato di minorità – sosteneva Kant in un testo nel quale si proponeva di rispondere alla domanda che cos’è l’illuminismo – indica l’incapacità di valersi della propria intelligenza in modo autonomo, di agire, cioè, a partire da se stessi, riconoscendosi nelle azioni che si compiono. Nello stato di minorità i soggetti non solo agiscono sulla base di istruzioni e norme esterne, ma sembrano anche averne bisogno; necessitano di seguire le indicazioni di altri, di obbedire, di farsi dire ciò che bisogna fare. Tuttavia, prima di cercare altrove la causa e l’origine di questa condizione di sottomissione (ad esempio nella religione, nello stato, nel sistema educativo, in generale nell’autorità coercitiva), i soggetti devono guardare, secondo Kant, innanzitutto a se stessi. Perché lo stato di minorità ha, a ben vedere, anche i suoi vantaggi, le sue comodità: si delegano per esempio ad altri le proprie decisioni, le proprie scelte, si fa solo quello che si deve e si evita, in questo modo, di dover rispondere di ciò che si fa, di portare il peso, la fatica, l’onere e l’onore di ciò che si è e di come si agisce. Una condizione leggera, dunque, per molti versi, quella di chi vive nello stato di minorità; ma anche una condizione di radicale alienazione, perché gli umani sono, nella loro essenza, ciò che fanno.

Stato di minorità è il titolo del libro di Daniele Giglioli (pp. 103, euro 14,00) con il quale la casa editrice Laterza inaugura una nuova e interessante collana, «Solaris», che ha come proprio intento quello di provare a far parlare il presente nel quale siamo immersi; una collana che è stata definita «ibrida», per il suo programmatico intento di tenere insieme la dimensione narrativa e quella saggistica.
Lo stato di minorità è dunque, per Giglioli, l’emblema di questi anni, la condizione fondamentale di questo nostro presente, di questa epoca figlia del postmodernismo e di tutte le sue destituzioni (del soggetto, della politica, della storia). Uno stato di minorità che ha però caratteristiche peculiari e almeno in parte differenti da quelle denunciate da Kant: nelle società occidentali del tempo presente, infatti, l’agire politico, la prassi nella sua dimensione essenzialmente politica, è percepita come sostanzialmente impossibile; non perché ci sia qualcuno che la proibisce, perché ci sia un esplicito impedimento a fare ciò che si vorrebbe fare, quanto perché essa è avvertita fin dall’inizio come ineffettuale, come incapace, cioè, di graffiare anche solo la scorza delle cose, di afferrare la realtà, di torcerla, di poter incidere su di essa.

La sensazione che vivono gli individui di questo presente è quella di una assoluta indifferenza della loro azione per il mondo; perché il mondo appare sempre retto da un altrove – il quale può essere declinato come un’ulteriorità infinita (il governo, l’Europa, le banche, la finanza, la tecnica) – che rende del tutto indifferente l’esserci o il non esserci dell’azione del singolo. L’uomo che vive nello stato di minorità è dunque, oggi, l’uomo che non agisce, l’uomo che non riconosce se stesso nelle proprie azioni, non tanto perché il mondo gli impedisca di agire, quanto perché le sue azioni non vengono riconosciute come tali dal mondo. L’uomo che vive in uno stato di minorità rischia, dunque, in questa sorta di inibizione rispetto all’azione, di smettere di essere se stesso; rischia, nella sua indifferenza all’azione, di diventare indifferente a sé e di ridursi ad altro da sé.

Per tracciare e indagare questo tempo dell’azione inibita Giglioli assume come guida, un romanzo di Saramago, Saggio sulla lucidità (pubblicato nella sua versione originale nel 2004 e tradotto da Rita Desti per Einaudi nel 2005). In quel libro Saramago racconta di una città nella quale i cittadini, pur recandosi ai seggi, votano in massa, e con percentuali sempre crescenti, scheda bianca. Un voto che è a un tempo un’azione e la sua negazione; un atto che dichiara, nel proprio compiersi, il non volersi esplicitare in termini di azione: un gesto che dice, cioè, l’inutilità dell’azione, l’insensatezza di qualsiasi scelta, di qualunque decisione.

Muovendo dal racconto di Saramago, Giglioli esplora dunque i dispositivi che, a suo dire, da una parte rendono ragione dell’inibizione che caratterizza il mondo occidentale contemporaneo, dall’altra costituiscono anche i luoghi a partire dai quali è possibile pensare a una dimensione critica, è possibile cioè elaborare un pensiero in grado di mettere a tema i meccanismi di potere che determinano questa epoca, in questa parte di mondo: il dispositivo terroristico, quello traumatico, la paradossale ambizione al ruolo della vittima, la miseria simbolica e il riproporisi di uno stato d’eccezione.

Rispetto a questo orizzonte, lo spazio della critica si gioca, attraverso il riconoscimento di questi dispositivi e attraverso l’esplicitazione delle logiche e delle dinamiche su cui si reggono, nella loro messa in questione e nella critica delle retoriche che li istituiscono e li sostengono: la retorica della condivisione e dell’unione, la retorica della pacificazione e della neutralizzazione del conflitto, la retorica dell’innocenza, la retorica della necessità e inevitabilità dello stato di dismissione (del soggetto, della politica, della storia).
Una simile operazione implica, però, un soggetto che agisce, implica il riconoscimento di uno spazio d’azione per la soggettività. Giglioli mette in evidenza come il pensiero postmodernistico sia stato, prima ancora che un pensiero della derealizzazione del reale, un pensiero dello scioglimento della soggettività, una cultura nella quale il soggetto è stato letto come il serial killer a cui imputare tutto: i grandi totalitarismi, la crisi ambientale, il neocolonialismo, la crisi finanziaria. Ma la dismissione della soggettività è anche sempre, dismissione della libertà, dismissione della critica, dismissione del pensiero.

Pensare dunque l’uscita dallo stato di minorità, pensare cioè la possibilità di un’azione, significa tornare a pensare, in termini non nostalgici e non malinconici, a un soggetto. Se è vero, come dice Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, che il soggetto è la serie delle sue azioni, una società nella quale non ci si riconosce nelle proprie azioni, o nella quale si viene chiamati a svolgere azioni che risultano adeguate solo nella misura in cui corrispondono a protocolli elaborati al di fuori di noi, è una società che ha di fatto tolto di mezzo la soggettività, e che con essa ha neutralizzato la libertà, la possibilità stessa di pensare qualsiasi istanza emancipativa. O, per meglio dire, è una società che chiede ai soggetti di riconoscersi e acquietarsi nel proprio autoannullamento, di pensarsi realizzati nella negazione di se stessi, di concepirsi adeguati e compiuti solo nella faticosa, ma alla fine, attraverso rigorose pratiche di controllo e valutazione, premiante corrispondenza a ciò che il potere stesso chiede di essere.