Chi possiede la dote di separare il corpo dall’anima ha maggiori probabilità di sopravvivere in un mondo in cui le persone e i luoghi hanno perso la loro aderenza originaria. È questa la lezione impartita dalla vita alla protagonista di Bianca come la luna (traduzione di Andrea De Benedittis, Einaudi, pp. 217, € 19,00), romanzo di iniziazione alla globalità a firma dello scrittore coreano Hwang Sok-yong, ex prigioniero politico del quale Einaudi ha già pubblicato Come l’acqua sul fiore di loto nel 2013.
Siamo nella Corea del Nord negli anni novanta del Novecento e un’interminabile carestia sta affamando la popolazione che cerca vie di fuga verso la Cina o la Corea del Sud. Bari è la settima figlia di una coppia che ha generato soltanto bambine e che vive di stenti nel villaggio montano di Ch’ongjin. La sorella, nata prima di lei, è rimasta sordomuta dopo che il padre ha tentato di affogarla, e Bari viene abbandonata dalla madre subito dopo il parto e salvata dall’assideramento dalla cagnetta di casa.

L’unico solido affetto è rappresentato dalla nonna, la quale ha voluto attribuirle il nome di una leggendaria principessa che cercava l’elisir di lunga vita «verso il cielo d’Occidente dove tramonta il sole», allo scopo di liberare i comuni mortali dalla sofferenza. In effetti, Bari è una shamana: sin da piccola comunica con gli animali e ha visioni premonitrici che condivide soltanto con la nonna giacché, in ottemperanza al rigido secolarismo imposto dal regime comunista, i genitori hanno proibito alle figlie ogni riferimento a pratiche o credenze superstiziose.

Quando il padre diventa vicepresidente del Comitato del Popolo in una città situata sul confine cinese, le sorti della famiglia sembrano migliorare grazie all’aiuto dei doganieri che regalano loro provviste di riso. Ma la situazione precipita quando l’uomo viene internato in un campo di lavoro al posto del cognato, fuggito nella Corea del Sud per sottrarsi ai creditori. Quel momento segna l’inizio di una irreversibile diaspora familiare. Bari si rifugia in Cina e, raggiunta la città di Yanji, entra nella comunità dei profughi coreani impiegati nel mercato del lavoro nero e braccati dalla polizia. In queste circostanze la ragazza scopre una vocazione alla cura del corpo attraverso il massaggio che le consentirà di mettere a frutto le proprie doti shamaniche. La Cina, tuttavia, è soltanto una tappa intermedia del viaggio verso il cielo d’Occidente cui Bari è destinata. Caduta nelle mani dei trafficanti di esseri umani, la ragazza si ritrova stipata nel container di una nave merci diretta in Gran Bretagna.

Gran parte del fascino di questa storia di migrazione deriva dallo stile asciutto e antimelodrammatico con cui viene raccontata dalla protagonista, le cui emozioni arrivano al lettore attutite dalla spessa coltre di eventi macro-storici che ne determinano l’esistenza: la dittatura coreana, la carestia, le persecuzioni dei profughi, la mafia cinese in Europa, l’attentato di New York, la guerra in Afghanistan. A bilanciare una certa superfetazione della attualità interviene, però, un secondo regime narrativo (segnalato dal corsivo, che crea l’effetto visivo di un dialogo), in cui si raccontano le esperienze extrasensoriali di Bari, e le sue peregrinazioni nel regno dei morti, con i toni insieme familiari e perturbanti del realismo magico. Nell’altra dimensione, Bari smette di essere il frammento di una umanità sradicata, per trasformarsi in depositaria di una memoria culturale centrata sull’amore per la natura, la solidarietà e l’armonia universale, tuttora molto viva in Asia.

Emblematico del metodo diSok-yong è il segmento di virtuosismo onirico che rende conto del viaggio dalla Cina alla Gran Bretagna. Qui la narrazione trasfigura la brutalità del moderno middle-passage nella semiotica della tradizione sciamanica – con l’intero corredo di bestiari, simbologie floreali, riti iniziatici – il cui inequivoco nucleo semantico giunge a Bari direttamente dallo spirito della nonna: il passaggio a Occidente, verso un mondo diverso e meno infelice, sarà lastricato da un immenso dolore.
Nella concentrazione di paure, speranze e premonizioni, la prolessi diventa così temporalità privilegiata di questo global novel. In una Londra minacciata dal terrorismo, ostile agli stranieri e bisognosa di empatia, l’arte del massaggio si rivelerà – per la novella principessa in cerca dell’elisir di lunga vita – una ermeneutica del corpo sofferente, capace di integrare armonicamente tutte le dimensioni dell’identità ferita e diasporica. Nel suo minimalismo, la pedagogia romanzesca non risulta tuttavia rinunciataria, tanto più che Hwang Sok-yong, conosce bene la realtà delle menti e dei corpi lacerati dalla storia.